È
nata in Inverno, ha vissuto in Inverno per partire, infine, in Inverno. Non a
caso aveva freddo.
Forugh FARROKHZAD
[5 gennaio 1935 – 14 febbraio 1967]
una, nessuna, centomila
Dopo
La
morte mi coglierà
Un
giorno di primavera risplendente di luce,
Un
giorno d’inverno polveroso e distante,
Un
giorno d’autunno vuoto di grida e di clamori.
La
morte mi coglierà un giorno,
Uno
di questi giorni dolciamari,
Un
giorno vano come gli altri,
Ombra
di oggi e di ieri.
Corridoi
bui i miei occhi,
Gelidi
marmi le mie gote.
Su
di me calerà repentino sonno,
Sarò
incapace di grida di dolore.
Liberate
dall’incantesimo della poesia,
Le
mie mani scivoleranno, lentamente, sui miei quaderni.
Ricorderò
che, un tempo, nelle mie mani
Arse
la fiamma della poesia.
Incessantemente
la terra mi chiamerà a sé,
Giungeranno
per seppellirmi nella mia fossa.
Oh!
Forse, a mezzanotte, i miei amanti
Deporranno
rose sulla mia infelice tomba.
Dopo
di me, repente si leverà
Lo
scuro sipario sulla mia vita.
Occhi
indiscreti frugheranno
Tra
le mie carte e i miei quaderni.
Dopo
di me una straniera, con il mio ricordo,
Verrà
nella mia piccola stanza.
Sullo
specchio si troveranno ancora
Un
capello, l’impronta di una mano, un pettine.
Sarò
affrancata da me, sarò superata da me.
Tutto
ciò che era stato, sarà disfatto.
Come
la vela di una barca all’orizzonte,
Il
mio spirito si allontanerà, si celerà.
Impazienti,
i giorni, le settimane e i mesi
Si
susseguiranno gli uni agli altri.
Invano,
i tuoi occhi fisseranno gli occhi delle strade,
Nell’attesa
di una lettera.
Ormai
la terra, la madre terra,
Serrerà
il mio corpo senza vita!
Privato
di te, separato dai battiti del tuo cuore,
Il
mio cuore marcirà là sotto la terra.
Dopo,
pioggia e vento scoloreranno, a poco a poco,
Il
mio nome dalla lapide.
La
mia tomba resterà ignota,
Dalla
fama e dallo sprezzo riscattata.
Forugh
Farrokhzad, Ribellione
traduzione
dal persiano di Daniela Zini
Fu
intorno ai dodici anni che ebbe fine il sistema di selezionare i libri da
leggere ed ebbi libero accesso alla biblioteca.
Secondo
mio padre, dovevo decidere da sola quello che dovevo leggere: la letteratura
era la mia grande passione e la letteratura doveva essere accettata con tutti i
suoi rischi.
Dovevo
apprendere a leggere con discernimento, a dare giudizi non influenzati, a non
entusiasmarmi perché erano libri di successo, né a giudicare negativamente per
l'avversa recensione di qualche critico.
Dovevo
apprendere a esprimermi con il minore numero di parole possibile.
Questi
sono stati i precetti di mio padre e questa fu l'impostazione culturale che lui
mi suggerì.
Perché
Forugh Farrokhzad?
Le
amicizie di spirito si fanno per catene o per incontri, come le amicizie di
cuore.
Un
caro Amico ci fa conoscere i suoi amici e questi ci piacciono per i tratti che
sono anche i suoi.
È
attraverso un caro Amico che mi sono avvicinata a Forugh Farrokhzad.
L’incontro
con questa forma di scrittura impegnata e lucida è stata decisiva nella ricerca
della mia condizione di donna.
Ho
iniziato a scrivere.
Ho
sviluppato la mia scrittura sotto una nuova luce.
Come
il cielo cambia di colore, i miei scritti sono divenuti una forma di lotta.
La
mia penna contro ogni arma, il mio amore contro ogni violenza, la mia verità
contro ogni menzogna.
E
mi sono esiliata nella scrittura, nella bellezza della mia lingua di adozione
e, inevitabilmente, in tutto ciò che questa possiede di mistero, di vigore, di
dolcezza.
Forugh
è stata una preziosa chiave nella mia presa di coscienza di giovane donna.
La
sua voce, in un tempo in cui la donna taceva, è stata per me un cartello
indicatore.
Questo
risponde, spero, alla domanda:
“Perché
Forugh Farrokhzad?”
Resta
la difficoltà di rinnovare il racconto di una vita che passa per ben
conosciuta.
Perché
raccontarla una volta di più?
Contro
ogni apparenza, nella sua vita vi è un silenzio che io vorrei cancellare
e che tutti hanno cercato di violare.
Amici
e biografi hanno raccontato la sua morte, cercando una precisione che era una
forma di indecenza, come a volere misurare la fatalità che colpiva quella
donna, straordinaria creatura, e a tentare di cogliere in quella vita quanto
Forugh aveva voluto tenere per sé. Taluni hanno ringraziato quella morte
improvvisa che ha impedito all’immagine libera e singolare di alterarsi.
Nei
lunghi anni in cui i suoi libri – e perfino pronunciare il suo nome – erano
proibiti nel suo Paese, le sue poesie sono state apprese a memoria e trasmesse
in segreto con venerazione.
Il
genio, per tutti compagno esigente e pericoloso, è, per una donna, un ospite
ancora più temibile.
Nel
1996, l’Iran ha voluto riabilitare la memoria di Forugh, come se fosse
necessario questo viatico per concederle il diritto di cittadinanza nel mondo
di oggi.
Donna
che ha sofferto, mezzo secolo prima di noi, la solitudine in mezzo alla folla,
il tedio grigio della città, il gusto carnale del peccato, l’estasi dell’amore
spirituale e l’inquietudine interiore, Forugh è anche il poeta che ha saputo
trasformare la sua sofferenza in una poesia nuova, diretta, finemente cesellata
ma priva di orpelli retorici. L’attenzione che gli studiosi dedicano ai valori
musicali e ritmici del suo linguaggio, alla sua potenzialità espressiva,
all’accumularsi dei significati nelle parole e nelle immagini, torna a conferma
– se mai ve ne fosse bisogno – dell’intimo e indistruttibile legame tra il
poeta e il suo strumento e dell’impossibilità di riprodurre questo legame
ineffabile.
Nel
mondo di oggi, quella di Forugh è, più che mai, una presenza viva.
Questa
androgina del deserto, questa amazzone dal cuore d’oro incarna perfettamente
l’idea di Oriente che l’Ooccidente coltiva: esotismo, amore, morte.
La casa di Forugh
Farrokhzad a Teheran.
Ha
eguagliato i classici nel creare caratteri e simboli di valore universale e li
ha superati nel porre questioni che l’Antichità ignorava o sfiorava appena, con
una sensibilità moderna e in termini di altissima poesia. Non vi è problema
della nostra epoca – morale, estetico, politico – che non si trovi prefigurato
in lei, il problema della libertà e della responsabilità, il dubbio e la
costituzionale incomunicabilità dell’uomo moderno, l’appassionata difesa della
persona umana, mortificata dai razzismi, la condanna e la maledizione della
violenza. Forugh ha saputo dare voce alle aspirazioni più profonde
dell’umanità. Ha saputo scrutare la realtà nel profondo, pur mantenendosi
disponibile a tutti i richiami, a tutte le suggestioni della fantasia e
spingere lo sguardo al di là dei limiti del visibile e del tangibile. Si
trovano in lei modi di dire l’indicibile, immagini capaci di gettare fasci di
luce su questo mondo oscuro che si agita alle radici stesse della coscienza,
quasi sospeso tra il conoscibile e l’inconoscibile. Forugh è una specie di
scienziato-alchimista, mago-prestigiatore, dio-burattinaio, che scruta uomini e
donne e la loro eterna commedia, pesandone al milligrammo le debolezze e le
menzogne, i falsi eroismi e le vane illusioni, per comporne, scomporne e
ricomporne, in tutte le possibili combinazioni, una quantità di giochi scenici.
Manovrando i fili li fa scontrarsi, accusarsi, spogliarsi, sviscerarsi, e, da
ultimo, inabissarsi senza pietà. Ecco i due punti estremi della parabola lirica
di Forugh: un fiducioso slancio iniziale verso l’eterno e il ripiegarsi su di
sé a scrutare la tenebra misteriosa che è al termine della vita terrestre.
Quello slancio iniziale, che è in ogni poeta, ma che, in Forugh, assume un
carattere particolare: si confonde, alla sua radice, con il senso di una
missione da compiere.
“Per me la poesia è una cosa seria.”
E,
nell’accanimento con cui si dà a quella che le appare la sua missione vi è
anche il bisogno di dimostrare a se stessa che ha altri doveri e la forza di
compierli.
Un
saggio sulla poesia di Forugh dovrebbe tenere conto dei poeti classici
persiani, di cui la sua opera è, del resto, l’ultimo anello. La poesia
persiana, per quanto intellettualizzata possa esserne l’espressione, è sempre
diretta: grido, sospiro, effusione sensuale, affermazione spontanea che nasce
sulle labbra dell’Amante in presenza dell’Amato. Mescola raramente il patetico
da un lato, l’elaborazione realista dall’altro, al suo lirismo o alla sua
oscenità quasi puri. Il sentimento di una costrizione morale, il rigore o
l’ipocrisia dei costumi non hanno influito sui poeti antichi come su questa
donna del nostro tempo. Il gioco delle reticenze e degli schemi letterari, la
mescolanza curiosa di rigore e di eccessi, perfino nello stile, e, soprattutto,
la segreta amarezza che permea certi componimenti ne sono un’ulteriore
testimonianza. La posizione del poeta resta quella tipica delle grandi epoche,
quella di un artigiano squisito. La sua funzione si limita a dare alla più
scottante e alla più caotica delle materie la più precisa e la più levigata
delle forme.
Ogni
nozione di peccato è decisamente estranea all’opera di Forugh; in compenso, e
solo sul piano sociale, è chiaro che il rischio dello scandalo e della
riprovazione ha contato per lei, che ne fu, in un certo senso, ossessionata. La
vergogna e la paura inseparabili da ogni esperienza clandestina conferiscono
alla poesia la bellezza di un’acquaforte incisa con il più corrosivo degli
acidi. I suoi versi migliori non ci danno delle esperienze o delle idee della
loro autrice che il punto di partenza o quello di arrivo; tralasciano tutto
quello che, anche nei più raffinati, si rivolge visibilmente al lettore, tutto
quello che rientra nell’ordine dell’eloquenza o della spiegazione. Così avvezzi
a vedere della saggezza un residuo delle passioni spente, da non riconoscere in
essa la forma più forte e più condensata dell’ardore, la particella d’oro nata
dal fuoco e non la cenere. D’altra parte, il bisogno di mettere l’esperienza
personale a servizio di una riforma razionale o di un progresso sociale – o di
ciò che si spera tale – è incompatibile con questa rassegnazione sobria che
prende il mondo com’è e i costumi come sono. È senza grande preoccupazione di
essere disapprovata o seguita che Forugh raggiunge decisamente l’edonismo
antico. Questa visione pregnante e, nel contempo, leggera del piacere, senza
abiezione, senza retorica, senza neppure la traccia del delirio di
interpretazione cui l’epoca post-freudiana ci ha assuefatti, finisce per
condurla a una sorta di asserzione pura e semplice di ogni libertà sessuale,
qualunque ne sia la forma.
Poesia
erotica, poesia gnomica sul tema dell’erotismo più che poesia d’amore.
Al
primo colpo d’occhio, ci si può addirittura chiedere se l’amore per un essere
in particolare figuri in questa opera.
Eppure,
a ben guardare, non manca quasi nulla: incontro e separazione, desiderio
inappagato o soddisfatto, tenerezza o sazietà, non è ciò che resta di ogni vita
amorosa passata al crogiuolo del ricordo?
È
uno spettacolo del più grande interesse guardare maturare questa saggezza,
vedere come i sentimenti di inquietudine, di solitudine, di separazione, ancora
molto sensibili nelle prime poesie, cedano il passo a una tranquillità
abbastanza profonda da sembrare facile. È sempre importante sapere se, in
ultima analisi, l’opera di un poeta si esprima per la rivolta o per
l’accettazione, ed è proprio per una sorprendente assenza di recriminazioni che
si caratterizza questa che stiamo esaminando. Si può dire, senza apparire
paradossali, che la rivolta qui si colloca all’interno dell’accettazione, fa,
inevitabilmente, parte della condizione umana che il poeta riconosce come
propria.
Esperienza
significativa per Forugh fu la poesia di Nima Yushij:
“Nima
mi ha aperto gli occhi e mi ha detto: “Guarda!”, ma, sono stata io, da
sola, ad apprendere a guardare.”
Forugh
appartiene a quel ristretto gruppo di artisti cui si riconosce un valore
universale, a quella rosa di poeti solari che appartengono a ogni epoca, ma
solo nel senso che ogni epoca si trova a dovere misurarsi con loro, a fare i
conti con la loro ingombrante presenza, e il modo di approccio è sempre diverso
e peculiare. L’immortalità del poeta, quel “monumento più duraturo del
bronzo”, vagheggiato da Orazio, consiste assai più nell’essere oggetto di
dissenso che oggetto di culto. La valutazione che fluttua, la disputa che si
ravviva, la problematica che si arricchisce a ogni passare di generazione, sono
le misure autentiche della vitalità di un poeta.
Passata
in mezzo a noi come una meteora, Forugh lascia, nello spazio di pochi anni,
un’opera meravigliosa. La sua visione del mondo è tanto originale, il suo stile
così raffinato e personale, che anche il più breve dei suoi scritti può
rivestire un notevole interesse.
La
sua vocazione, presente fin dall’infanzia, urta, per molti anni, contro un
ostacolo insormontabile: l’obbedienza alle rigide regole della composizione.
L’ostacolo è superato nel momento in cui, accettando se stessa qual è, spezza
le catene tradizionali della poesia e lascia sgorgare, senza costrizioni,
l’ispirazione che la anima.
“Quando avevo
tredici o quattordici anni, scrivevo molte poesie, mai pubblicate. La poesia
prorompeva in me spontaneamente. Ogni giorno componevo due o tre poesie, stando
seduta, in cucina, dietro la macchina per cucire.”
Nel
suo impulso verso l’espressione tragica di un individualismo aspro, integrale,
talora addirittura estremistico, l’opera poetica di Forugh sembra avanzare
sotto il segno della frase di Pindaro, ripresa a suo tempo da Nietzsche:
“Divieni
ciò che sei.”
e
assume il suo carattere più autentico quale tentativo di edificare un
orgoglioso monumento alla pienezza dell’uomo in quanto persona.
È
una esplorazione che Forugh tenta del suo mondo.
Descrive
un viaggio iniziatico.
Chi
dispone le sue poesie cronologicamente possiede un diario assai preciso dei
moti della sua anima.
“Considero
la poesia una vera e propria esigenza, una esigenza più importante del
mangiare, del dormire, dello stesso respirare: è una necessità per me. Fa parte
ormai di me.”
La
sua poesia è la vita fatta opera, l’essere e il tempo umani tramutati in
linguaggio.
“Che
nella mia poesia si possa distinguere un tratto femminile, è inevitabile. Sono
una donna. Ma, se si considera il valore artistico, non si dovrebbe tenere
conto del sesso dell’artista. Non è giusto attenersi a questo aspetto. È naturale
che una donna, per ragioni connesse alla sua specificità fisica e psicologica,
colga aspetti della realtà, che a un uomo, probabilmente, sfuggono, e abbia una
visione femminile delle cose diversa da quella maschile.”
Questa
osmosi, che rende l’opera e la vita indissociabili come vasi comunicanti,
spiega la scelta del termine Asir [Prigioniera] per il titolo della sua
prima raccolta
poetica.
“La
poesia mi era aliena. Ora è penetrata in me, si è impossessata di me e, per
questa ragione, non me ne posso separare. Ne sono perfino gelosa. Un tempo non
prendevo sul serio le mie poesie; ora, se qualcuno ne irride, mi risento: le
amo troppo. Ho lottato molto per giungere a domare questa cosa che mi appariva
estranea e selvaggia e sentirla parte di me. Mi sono a tal punto fusa con essa
e, a tal punto, essa scorre in me, che non è più possibile separarci.”
Come
Marina Svetaeva, Forugh crede che si
possa essere poeta senza avere mai scritto un solo verso. Per queste due donne
la poesia è una vocazione, un modo di vivere, un modo di percepire il mondo,
come una stessa unità di essere. Le accomuna l’esigenza, assoluta come una
chiamata religiosa o una vocazione mistica, di vivere la propria identità
femminile al di fuori e contro gli schemi prefissati, di reinventarsi una esistenza
libera nell’unico spazio incontaminato dalla realtà e a essa strenuamente
antagonista: la poesia.
Il
fascino vagabondo della poesia è di piegarsi alla vita e, in ciò, non è molto
dissimile dal diario intimo. Questo perché un’opera poetica dà sempre qualche
appiglio all’illusione retrospettiva. Tutta la questione è di sapere se la
forma che soddisfa, infine, lo spirito e il cuore, l’occhio e l’orecchio, è
un’illusione o, al contrario, una costruzione che si rivela la sua struttura,
al termine di un lungo e tortuoso percorso. Parlare di ispirazione a proposito
della poesia, è riconoscere che questa è intessuta di una successione di
momenti casuali o, se si preferisce, di grazia. E , tuttavia, questa
successione apparentemente sconnessa, poiché tale è il prezzo della libertà,
dell’improvvisazione, obbedisce in maniera segreta a una esigenza di unità, è
mossa da un disegno.
La
sua opera poetica comprende cinque raccolte. A dispetto della divisione
tematica e della frammentazione in poesie distinte, vi si può leggere una
storia, una storia interiore, la storia di un’anima. Questo paziente
assemblaggio di parole che fa una poesia, questa costellazione cangiante e
mutevole di poesie che fa un libro – parole e poesie rivelate nella loro
fragilità, trascinate via dalla corrente dell’esistenza, con tutto ciò che in
essa vi è di raro e di banale, di casuale e di eterno – possiedono chiaramente
il senso di una resistenza.
I
sistemi sociali occidentali nei quali viviamo cercano sempre più un essere
umano privo di pensiero libero, privo di volontà assertiva, ridotto a elemento
di statistica, a indice di ascolto verso priorità economiche di consumo.
La
poesia è una forma non violenta, ma estremamente efficace, di protesta contro
ogni forma di regime.
La
poesia di carattere si confonde, quasi sempre, con la poesia politica.
Come
molti suoi conterranei, Forugh sembra essere stata amaramente sensibile allo
spettacolo di perfidia, di disordine, di eroismo inutile o di vile inerzia che ha
caratterizzato, sovente, la storia dell’Iran – non più, tuttavia, di ogni altra
storia, antica o moderna. La sua assenza di moralismo, il rifiuto del
sensazionale e dell’enfasi restituiscono a questi temi danneggiati da tanti
declamatori una lampante attualità.
Si
fa fatica a credere che le poesie di avvilimento e di disfatta non siano state
ispirate da avvenimenti della nostra epoca, invece di essere state scritte
mezzo secolo fa.
Questo
aspetto militante è marcatamente evidente nei Paesi occupati o soggetti a
censura, ove la poesia si ammanta della funzione di lotta ideologica.
Al
senso sovversivo delle parole assemblate si accompagna sovente un rinnovamento
delle forme più o meno radicale: è un’altra lotta, questa interna alla poesia,
un lavoro di distruzione-ricostruzione.
Forugh
ha sempre attribuito un’importanza capitale alla composizione della sua opera,
all’architettura del suo libro. Per lei, infatti, non si trattava soltanto di
riunire in un unico volume delle poesie sparse, ma di integrarle in una forma
dotata di forte coesione, di necessità organica. Va da sé che il titolo che
corona questa somma e le dà, per sempre, un senso, questo titolo firma un
progetto che, a lungo, prima di dichiararsi e di tentare di compiersi, è stato
il filo conduttore latente di una ispirazione pigramente e sapientemente
orientata. Forse, questa preoccupazione è una delle cause dell’estrema lentezza
nell’elaborazione e nella pubblicazione delle sue produzioni letterarie.
“Quando
penso al Tavallodi Digar [Rinascita], mi rammarico. È il frutto di quattro anni
di lavoro. Troppo poco!”
Prematuramente
nasce in lei una profonda visione fatalista della esistenza umana, che le fa
sostenere che tutto è scritto, tutto è maktub, che, forse, può essere la
causa della sua inerzia nei confronti della successiva, precoce decadenza
fisica.
Soggetta
a eccessi di ogni tipo, brucia i suoi anni intensamente.
Abbandonata
a un vento sradicante, a un’irresponsabile belva dolceamara che squassa, in
un’epoca in cui la vita delle donne segue percorsi obbligati, Forugh si fa un
modello di Elena, la colpevole, la sconsiderata, indifferente com’è all’amore
rispettabile, sia esso quello razionale dei filosofi, che avvia a suprema
essenza, sia esso quello ragionevole, che fonde e sostiene la famiglia e la
comunità.
Dà
scandalo.
La
sua salute peggiora quasi subito.
Forugh
perde la fede e si dedica con diligenza a cercarne un’altra, finché, dopo
numerosi tentativi, trova un asilo spirituale a lei congeniale nella
poesia.
“Il
rapporto a due non può mai essere perfetto o completo. Ma la poesia è per me una
amica con la quale poter parlare in libertà e in intimità. È una amica che mi
completa.”
Nel
decennio che segue la sua abiura, Forugh scopre oltre alla propria vocazione di
poeta e di pittore anche quella di regista. Aveva, insomma, un temperamento
artistico.
“Per
me il cinema è un mezzo di espressione. Se ho scritto poesie tutta la vita, non
per questo la poesia è l’unico mezzo di espressione.”
A
ventisette anni realizza Khanè siyà ast.
Il
soggetto fa paura: il lebbrosario di Baba Baghi, a Tabriz, dove i malati,
votati all’oblio, vivono nascosti al resto del mondo.
La
cinepresa entra e libera volti, corpi, ossa, mani deformi senza clamori, con la
compassione della sensibilità e quella distanza necessaria a un’immagine
poetico-politica.
Forugh
scrive i dialoghi, adattando passi della Torah
e del Corano.
Questo
cortometraggio, ordinato dalla Society
for Assistance to Lepers, una società caritatevole per la lotta
contro la lebbra, è l’unico film di Forugh, che rivela una stupefacente
padronanza della fusione del documentario e del linguaggio poetico e ne fa
un’opera semplice ma eterna, un faro del cinema d’arte iraniano.
Ebrahim
Golestan, suo compagno nella vita e nel lavoro, è il produttore del film.
“Il
primo giorno che ho visto i lebbrosi, sono stata malissimo. Era uno spettacolo
terribile: in un lebbrosario vivono creature con connotati e sentimenti umani,
ma senza tratti umani.”
“Le
donne lebbrose sono molto strane, pur avendo perduto ogni traccia della loro
bellezza si truccano quotidianamente. Le loro dita consunte dalla lebbra sono
piene di anelli. Mi hanno chiesto collane e bracciali. Nelle loro camere vi
sono specchi e talismani.”
Il
film si apre con l’immagine di una donna dal volto semicoperto che si guarda
allo specchio.
“Il
mio film si apre con l’immagine di una donna che si guarda allo specchio.
Questa donna simboleggia, in realtà, l’essere umano che osserva la sua vita
allo specchio, qualsiasi sia questo specchio.”
Una
voce fuori campo commenta:
“Il
mondo non difetta certo di brutture, se l’uomo distogliesse da loro lo sguardo
ve ne sarebbero certo di più.”
È
così che si entra nel quotidiano della khane-ye siyà, dove i lebbrosi
attendono che la morte o, forse, per miracolo, le cure pongano fine al loro
dolore. La critica iraniana accusa Forugh di strumentalizzare i malati, di
usarli per scrivere una metafora dell'Iran sotto lo shah, un luogo di isolamento e di repressione.
Ma,
di sicuro, Forugh sarebbe stata in prima linea anche contro ogni oscurantismo
religioso-politico a venire.
Nel
corso del frenetico processo di modernizzazione del Paese messo in atto da
Mohammad Reza Pahlavi non era consentito rappresentare le miserie e i disagi
che ancora persistevano: l’Iran doveva apparire agli occhi delle potenze
occidentali un Paese in pieno e rapido sviluppo. Il bersaglio primario della
censura era, dunque, rappresentato da qualsiasi opera che, stigmatizzando i
gravi costi sopportati dal popolo per quella modernizzazione forzata, potesse
descrivere criticamente le condizioni sociali del Paese o metterne in risalto
la povertà e l’arretratezza o, comunque, una qualsiasi carenza della politica
di governo.
Questa
donna bizzarra è una figura scomoda, troppo particolare, troppo eccentrica.
“A proposito del percorso che ho scelto nella
poesia e dell’idea che ne ho, penso che una poesia è una fiamma di sentimento e
che è la sola cosa che possa trasportarmi in un mondo di sogno e di bellezza.
Una poesia è bella quando il poeta vi proietta tutte le vibrazioni e il fervore
della propria anima. Io credo che si debbano esprimere i propri sentimenti
senza alcuna restrizione. In linea di principio, non si può fissare un limite
all’arte, altrimenti perde la sua anima. È seguendo questo principio che scrivo
poesie. Faccio molta fatica, come donna, a conservare la speranza in questa
società corrotta. Ho dedicato la mia vita all’arte e posso dire di averla, perfino,
sacrificata all’arte. Voglio vivere per la mia arte. So che il cammino che
seguo nella società attuale ha fatto molto clamore e mi ha creato molti
nemici.”
Il
punto è che l’ufficialità la osteggia per le scelte radicali di arte e di vita,
per le immagini che scavano nelle pieghe invisibili dell'Iran: è la prima donna
in Iran a scrivere di amore, di desiderio e di sensualità, e questo è
intollerabile, come intollerabile è il fatto che nell'arte entri il vissuto
senza compiacimenti, ma come gesto di libertà. Perché quel vissuto mescola
erotismo e religione, denuncia privilegi e povertà, trasforma la poesia in uno
spazio politico, senza perdere il piacere della scrittura.
“Ma,
io credo che si debbano, una buona volta, infrangere le barriere. Qualcuno
doveva impegnarsi in questo cammino e poiché io ho il coraggio e la volontà
necessari, ho preso l’iniziativa. La sola forza, che mi dà, sempre, la
speranza, è l’incoraggiamento dei veri intellettuali e artisti di questo Paese.
Io detesto la gente che fa tutto quello che vuole e, poi, parla continuamente
di fustigare i costumi della società.”
Odiata
o amata, senza mezze misure, da chi ebbe modo di conoscerla, dopo la sua morte,
Forugh è divenuta, in Iran, una leggenda. Al di là delle mitizzazioni del personaggio,
nel leggere le numerose pagine a lei dedicate, non si riesce, comunque, a
rimanere indenni dal fascino che soffonde da questa donna, che riposa da
quarantatre anni nel cimitero di Zahir-od-Dowlè,
a Tehran.
Le
molte false glorie, che il nostro tempo ha visto tramontare, in campo
letterario come in altri campi, acuiscono la nostalgia dell’incontro con una
gloria autentica. Ma non solo per questo Forugh è sentita così attuale e
congeniale dalle nuove generazioni. Si tratta di una affinità più profonda.
Una
rivoluzione divide gli abitanti di un Paese in tre gruppi: quelli che non
possono essere che rivoluzionari, quelli che non possono essere che ostili alla
rivoluzione e quelli che sono dilaniati perché, pur appartenendo alla classe
minacciata, la avversano.
È
a questo terzo gruppo che appartiene Forugh Farrokhzad.
Daniela
Zini
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