un
inno alla vita tra gli orrori di Auschwitz
Charlotte SALOMON
[16 aprile 1917 –10 ottobre 1943]
messaggera
di pace in un mondo travolto dalla follia della guerra
a tutte le Vittime della guerra e a mio Nonno, scomparso nove
mesi fa, domani
“La guerra è il male peggiore che affligge la società umana ed è
fonte di ogni male e di ogni corruzione morale.”
Immanuel Kant
“Sembra
che sia stata dichiarata guerra alla pace!”
Entro queste drammatiche parole, Giovanni Paolo II aveva,
sinteticamente, compreso, il 31 marzo 2002, giorno di Pasqua, gli avvenimenti
che avrebbero fatto precipitare la crisi in Medio Oriente.
Noi non amiamo la guerra, che non arreca che sofferenza e dolore e semina
morte.
Ma si può immaginare
un mondo senza guerra?
In cosa la guerra differisce dalle altre forme di violenza?
La guerra non è che la manifestazione dell’aggressività naturale o è
legata alla vita in società?
E, se è così, come è evoluta via via
che la cultura ha progredito?
Perché non è scomparsa
con l’evoluzione della civiltà?
Tutte le guerre si valgono e si può parlare di guerre giuste o
ingiuste?
A tutte queste domande non vi è una risposta semplice né una risposta
già pronta, ma bisogna pur porsele: permettono di riflettere sul modo in cui
gli uomini vivono insieme.
La pace non è
l’assenza di guerra, né il contrario della guerra.
Definire la pace
come l’assenza di guerra è ridurre la pace a una visione passiva, incompleta e
lontana.
Le cause di ogni
guerra sono molteplici e, sovente, contraddittorie.
Dal 1945, 150
conflitti armati hanno causato la morte di 23 milioni di persone, di cui 15
milioni di civili e una schiacciante maggioranza di donne e bambini.
Nel corso
dell’ultimo decennio, 2 milioni di bambini sono stati uccisi, 6 milioni hanno
riportato menomazioni, 100 milioni hanno perduto la loro casa, più di un
milione sono rimasti orfani e milioni hanno subito traumi.
Si contano,
attualmente, più di 20 conflitti nel mondo.
Noi pensiamo che gli
uomini siano le vittime delle guerre perché sentiamo molto parlare di soldati che
cadono al fronte e sentiamo parlare, relativamente poco, dell’impatto
particolare della guerra sulle donne. Ma
la guerra fa vittime anche tra le donne: raramente implicate nei combattimenti
per il loro ruolo sociale, le donne sopravvivono alla guerra. In quanto vedove
o spose di un invalido di guerra, debbono farsi carico della famiglia e della
sua sussistenza in un tessuto sociale disgregato, conservando il loro ruolo
materno tradizionale, nonostante i traumi, le ferite fisiche e morali.
Le donne rappresentano
la maggioranza dei rifugiati e degli esuli interni.
Lo stupro delle donne
fa parte integrante della guerra. Attraverso la storia, le donne sono state,
secondo le circostanze, considerate “bottino di guerra”, “moneta di scambio”,
“riposo del guerriero” e “campo di battaglia”, i loro corpi sono identificati con
il suolo nemico. In ogni caso, sono ridotte al rango di oggetto e percepite come
strumento lecito di scambio tra uomini.
Di più, lo stupro di massa è divenuto una vera
strategia di guerra.
20mila donne e ragazze sono state stuprate
nei conflitti nei Balcani, in Rwanda sono state 250mila. Secondo Amnesty
International, migliaia di donne hanno, egualmente, subito sevizie sessuali, in
Sudan.
Lo stupro delle donne – perpetrato,
sovente, sotto gli occhi del proprio marito e dei propri figli – è un’arma del
terrore e dell’umiliazione.
Un velo di silenzio viene, così, a
occultare la violenza contro le donne.
Dopo uno stupro, la donna è, infatti, rigettata
dai suoi parenti, esclusa dalla sua comunità, agli occhi della quale ha perduto
onore e dignità, ritrovandosi, in tal modo, isolata ed emarginata socialmente,
sovente, privata di ogni mezzo di sussistenza. La violenza sulle donne,
considerate proprietà degli uomini, è vista come un oltraggio all’onore degli
uomini. La violenza è, così, utilizzata per umiliare, disonorare o
demoralizzare il nemico, quale elemento di propaganda militare, quale politica
di purificazione o di pulizia etnica, quale atto di genocidio, quale strumento
di terrore politico, ecc.
Di qui, l’importanza capitale del rispetto
del diritto internazionale umanitario per la difesa delle donne.
È solo, tra il 1993 e il 1994, negli Statuti dei due Tribunali
Penali Internazionali, creati per giudicare i crimini commessi nell’ex-Jugoslavia
e in Rwanda, che lo stupro e le altre violenze sessuali sono, esplicitamente,
menzionati nell’atto di accusa, poi, sanzionati come crimini di guerra. E ciò,
grazie alle richieste e alle
mobilitazioni di organizzazioni femministe.
Tutti gli Esseri hanno
diritto di vivere in un mondo senza guerra né conflitto armato, senza
occupazione straniera né base militare.
Nessuno ha il diritto
di morte sulle persone e sui popoli.
Il rifiuto delle guerre, che sono fatte e
si fanno sulla schiena e sul ventre delle donne, è il rifiuto di utilizzare le
donne come fattrici in serie di carne da cannone, mandate in massa nelle
fabbriche di produzione di guerra, rimandate a casa, una volta terminata la
guerra.
Rompiamo il silenzio delle donne
prostituite, stuprate come si stupra un territorio, gridiamo con le donne, i
cui bambini sono deformati dalle armi chimiche e dalle radiazioni.
Non sono né i missili, né le bombe, né i
carri di assalto, né gli impieghi militari, né tutto il resto della macchina di
morte che daranno ai Popoli del mondo servizi sociali, scuole, case, lavori
decenti e utili, condizioni di vita, per cui ci battiamo da lungo tempo.
Nel 2000, il Consiglio
di Sicurezza delle Nazioni Unite adottava una risoluzione, che mirava,
esplicitamente ed esclusivamente, alle donne, ai loro diritti, al loro ruolo e
alla loro vulnerabilità particolare nei conflitti armati. Per gli specialisti
della promozione della pace, il suo numero – 1325 – evoca, immediatamente, tre
parole magiche:
“Donne, Pace e Sicurezza.”
La risoluzione pone
tre esigenze particolari e chiede:
-
che il ruolo e il
contributo delle donne siano accresciuti nelle operazioni di pace e che queste
siano associate nei negoziati;
-
che misure siano prese
per proteggere le donne e le ragazze contro gli atti di violenza sessista nei
conflitti armati;
-
che i diritti e i
bisogni delle donne e delle ragazze siano, realmente, protetti durante e dopo i
conflitti.
Chiede, inoltre, che
gli Stati tengano conto dell’impatto specifico delle loro attività di
promozione della pace sugli uomini e le donne.
Il 29 gennaio 2002, nel suo discorso sullo stato dell’Unione, George
W. Bush dichiarava:
“La bandiera americana sventola di nuovo sulla nostra ambasciata
a Kabul. […] Oggi le donne sono libere!”
Ma se si ricorda bene la successione degli eventi, era il quarto
cambiamento di obiettivo dall’inizio della guerra.
La guerra era stata dichiarata da G. W. Bush, l’11 settembre 2001, a nessuno in
particolare e al mondo in generale. Anche se corrispondeva alla realtà, ciò
costituiva una innovazione troppo grande per la stampa e il pubblico da
mantenersi.
Dall’indomani, un nemico preciso è scelto: è Osama Bin Laden,
che gli Stati Uniti intimano ai talebani di consegnare.
A loro, gli americani!
Davanti alla risposta dei talebani – classica in caso di
estradizione –, che chiedono la prova della colpevolezza di Osama Bin Laden, gli
Stati Uniti ripetono il loro ultimatum.
Quindici giorni più tardi, rigettano una nuova offerta dei
talebani: consegnare Bin Laden a un Paese neutro.
Un’offerta di “negoziati”?
Dio non voglia che gli Stati Uniti negozino!
Poi, Donald Rumsfeld, segretario alla difesa, dichiara che Osama
Bin Laden non sarà, forse, mai trovato; un terzo obiettivo appare: ormai, è il
regime talebano il nemico.
Gli argomenti contro questo regime mon mancano.
Io dirò anche di più: erano sei anni che non mancavano e sei
anni che non bastavano a giustificare una guerra.
Ma d’un tratto, bastavano!
Non solo naturalmente: oltre a essere odiosi, i talebani hanno
dato riparo a Bin Laden, sospettato di essere l’autore degli attentati dell’11
settembre. Dopo un mese di bombardamenti, le truppe dell’Alleanza entrano a
Kabul, gli occidentali gridano “Vittoria” e hanno il sentimento di avere
compiuto una buona e bella cosa a basso costo.
I giornali pubblicano foto dei sorrisi delle donne, no, pardon,
del sorriso di una donna e la guerra trova la sua quarta ragione: la
liberazione delle donne.
Così la liberazione delle donne afghane è presentata come l’obiettivo
principale di quella guerra, scoppiata all’indomani dell’11 settembre 2001.
Ricordiamoci, tuttavia, che i talebani erano al potere dal 1996, che la
situazione di oppressione vissuta dalle donne afghane era conosciuta e
largamente denunciata dalle femministe, ovunque nel mondo, e che né gli Stati
Uniti né le potenze occidentali sembravano prestarvi molta attenzione.
Nel settembre del 2001, sono diffusi il film agiografico, Massud
l’afghano, e il documentario, Donne di Kabul, che mostrano la realtà della vita
delle donne dopo la “liberazione”, e lascia, infine, alle donne afghane
spiegare ciò che i giornalisti hanno nascosto per quattro mesi: la repressione
delle donne è iniziata con i mojahedin e non con i talebani.
Le guerre distruggono la struttura familiare.
Le donne si ritrovano vedove (nel 2008, vi erano più di 1,5
milioni di vedove, in Afghanistan) e i bambini orfani (il 12% di tutti i
bambini afghani), senza contare tutte le persone mutilate; comunità intere sono
decimate e milioni di persone, in maggioranza donne e bambini, si ritrovano in
campi di rifugiati.
Come se ciò non bastasse, le guerre distruggono anche le
infrastrutture, gli acquedotti, gli ospedali, le scuole e le strade.
Ciò rende molto difficile, perfino impossibile, il compito delle
donne che hanno la responsabilità di preparare il cibo e di prendersi cura dei
propri cari, quali bambini, anziani e malati.
Di più, i rifiuti tossici militari hanno un enorme impatto, che
perdura, a lungo termine, sulla vita riproduttiva delle donne: aumento
significativo di malformazioni di feti, di aborti spontanei e di cancri
dell’utero e del collo.
Peraltro, in Italia, come in altri Paesi occidentali, l’aumento
vertiginoso delle spese militari, in tempo di guerra, si fa a spese del finanziamento
dei servizi pubblici (sanità, istruzione, servizi sociali).
Nella sua commedia
Lisistrata, Aristofane mostra come le donne mettano fine alla guerra tra Atene
e Sparta. Nelle due città rivali, fanno giuramento di fare lo sciopero
dell’Amore fintanto che gli uomini continueranno a battersi. Per riportarli
alla ragione, le ateniesi giungono perfino a impadronirsi della cittadella dove
si conserva il tesoro pubblico.
“Togliamo loro i
viveri!”
Il successo è
impressionante.
Ateniesi e spartani
abbandonano le armi e organizzano con le donne una grande festa della
riconciliazione e dell’Amore.
Già, 2000 anni fa, il
messaggio era chiaro: le donne possono compiere grandi cose a condizione di
unirsi e di agire.
Ma noi ci lamentiamo,
sovente, delle difficoltà che incontriamo, delle difficoltà che incontriamo nel
conciliare la vita familiare e la vita professionale, i salari ineguali, la
violenza domestica.
Piuttosto che
lamentarci, agiamo!
Nel 1870, Julia Ward Howe, sconvolta dal carnaio della guerra civile
statunitense, lanciò l’idea della Festa delle Madri, come protesta di donne, i cui figli erano stati uccisi in guerra.
E chiamò le donne a levarsi per opporsi alla guerra sotto ogni
sua forma:
“Levatevi, dunque, donne di questo giorno!
Si levino tutte le donne che hanno cuore, sia che abbiano avuto
un battesimo d'acqua, sia che abbiano avuto un battesimo di paura. Dite con
fermezza: Non permetteremo che le grandi questioni siano decise da entità insignificanti.
I nostri mariti non torneranno da noi con addosso il fetore del massacro, per
ricevere carezze e applausi. I nostri figli non ci verranno sottratti perché
disimparino tutto quello che noi siamo state in grado di insegnare loro sulla
carità, la pietà e la pazienza. Noi donne di una Nazione proviamo troppa pietà
per le donne di qualsiasi altra Nazione, per permettere che i nostri figli
siano addestrati a ferire i loro. Dal seno di una terra devastata una voce si
unisce alla nostra.
Dice: Disarmo! Disarmo!
La spada dell'assassinio non è la bilancia della giustizia. Il
sangue non lava il disonore, né la violenza indica possesso. Poiché gli uomini
hanno, spesso, abbandonato l'aratro e l'incudine alle prime avvisaglie di
guerra, che le donne, ora, lascino a casa tutto ciò che può essere lasciato e
si uniscano a un grande e serio giorno di consiglio. Si incontrino dapprima,
tra donne, per lamentare e commemorare i morti. Si uniscano, poi, solennemente
in un comune consiglio per divisare i mezzi con cui la grande famiglia umana possa
vivere in pace, e ognuna porti, per il tempo che mette a disposizione, la sacra
impronta, non di Cesare, ma di Dio. In nome delle donne e dell'umanità, io
chiedo seriamente che un congresso generale delle donne, senza limiti di
nazionalità, venga indetto nel luogo più conveniente e nel più breve tempo possibile,
in concordanza con i propri scopi, per promuovere l'alleanza di diverse nazionalità,
la risoluzione amichevole delle questioni internazionali, il grande e generale
interesse della pace.”
Levatevi, donne di
oggi!
Probabilmente sarà la storia a dirci se, nell’Iran del 2009 e
nella Siria del 2012, abbiano avuto un ruolo anche le potenze occidentali o
Israele, andando a fomentare le rivolte, come sostengono sia Ahmadinejad sia
Assad.
Se le diplomazie dell’Occidente e della Lega Araba dovessero
fallire i loro tentativi in Siria e in Iran, resterebbe purtroppo solo da
aspettare chi farà la prima mossa. Ma la sensazione è che, più che all’interno,
il futuro dell’Iran si giocherà fuori dei confini nazionali.
In Iran, le ripetute sanzioni internazionali hanno, a poco a
poco, indebolito la capacità commerciale del Paese, costretto, sempre più, a
contare sulle proprie forze e a cercare nuove rotte commerciali, Cina, India,
Venezuela e Brasile. E, con una rete finanziaria bloccata a causa dell’embargo,
la crescita economica non si è vista e l’inflazione a livelli insopportabili
sta stringendo il cappio intorno al collo anche alla classe medio-alta, che,
finora, riusciva a trainare il Paese.
Di più, con una moneta così deprezzata, alcuni importanti
partners commerciali, quali la Cina, hanno proposto al governo Ahmadinejad di
pagare l’acquisto di petrolio e gas in beni commerciali.
Soffiano venti di guerra.
Dobbiamo, dunque, considerare fallimentare il progetto dell’ONU
di realizzare l’effettivo disarmo, di prevenire le guerre, di orientare i
conflitti mediante la diplomazia e di migliorare lo stato sociale delle Nazioni
del mondo?
Democrazia, autodeterminazione, guerra giusta, pace punitiva…
termini di attuali conflitti.
L'ambiguità e la mancanza di trasparenza sulle operazioni lungo
la linea di contatto, il traffico di armi, le spese militari e perfino lo stato
dei colloqui di pace: tutto contribuisce alla precarietà della situazione.
Si dovrebbero rafforzare i meccanismi di monitoraggio e attuare
misure per aumentare la sicurezza e diminuire i rischi di una guerra
accidentale.
Roma, 28 maggio 2013
Charlotte Salomon [1925]
Nel
suo diario dipinto la giovane artista, una ebrea tedesca, rifiuta la sua
crudele condizione di vittima del meccanismo che trasforma l’uomo in belva e
rincorre, freneticamente, una visione ideale dell’esistenza, permeata di Amore
nel bene e nel male.
“Le opere di Charlotte Salomon costituiscono la sua
autobiografia.”,
così,
ha scritto Emil Strauss nel presentare, molti anni fa, una straordinaria serie
di fogli, sui quali una ragazza di nome Charlotte tradusse, in immagini, la sua
esistenza.
Una
vita breve, troppo breve, che terminò nelle camere di Auschwitz.
Ma
l’Amore per l’esistenza vibra in quelle opere, si addensa nel colore e nella
forma, crea grumi di sommesse penombre per ricordi e sentimenti segreti,
sfavilla intorno a evocazioni di gioia, che moltiplicano la figura della
protagonista [due, tre, tante Charlotte piegate sul foglio a dipingere, quando,
finalmente, viene ammessa all’accademia d’arte, in un tripudio di fiori e
frutta e scintille di luce].
E,
improvvisamente, si fissa, quell’Amore, in immagini sbigottite, paralizzanti
quando il dramma esplode nella esistenza della ragazza: la finestra aperta
dalla quale si è gettata la madre, il nazista che frusta il padre nel campo di
concentramento, la nonna raggomitolata su se stessa simile a un animale malato,
prima di suicidarsi anche lei.
Ha
scritto Carlo Levi:
“L’autobiografia di Charlotte Salomon, narrata nelle tempere
dipinte nei suoi ultimi anni […], questo racconto della vita di una ragazza
ebrea tedesca, può essere guardata o letta in modi diversi: come documento,
come opera d’arte, come affermazione di vita, come romanzo di sentimenti di
fronte al destino.”
E
ancora:
“Di fronte al disumano orrore di un mondo rivolto ferocemente
contro l’esistenza stessa, praticante un continuo sacrificio idolatrico di
sangue, fu naturale, per chi rifiutava anche la condizione di vittima,
riscoprire il valore della semplice vita dell’uomo, ritrovarlo in ogni momento
del ricordo, nel tesoro intatto dell’infanzia e della giovinezza, nei beni e
nei mali di una vita guardata con Amore.”
Charlotte
rifiuta la condizione di vittima e parla, in nome di tutte le donne, di tutti
gli innocenti massacrati dalla follia della guerra, nazista e non nazista.
Parla con i mezzi dell’artista “poiché l’Arte –
come scrisse sopra uno dei suoi disegni – non è altro che darsi di più […] e
creando si esprime se stessi”.
Così,
mentre la morte infuria sull’Europa, Charlotte ricrea la sua vita e quella dei
suoi, in immagini che diventano sempre più rapide, più essenziali, a mano a
mano che procede, spinta dal presagio che neppure lei si salverà.
1939:
Charlotte è al sicuro in Francia, ospite, insieme ad alcuni bambini ebrei,
nella villa di una americana, a Nizza. Ma sa benissimo che non durerà e che
bisogna fare presto.
Così
Charlotte rappresenta la sua nascita: una puerpera, dolcemente spossata nel suo
letto ben ordinato; una neonata, che, con la sua presenza ripetitiva, riempie
la stanza della sua gioia di vivere. A destra, l’autrice raffigura la vita, di
cui la madre, forse, angosciata da oscuri presagi, le fa intravedere il precoce
epilogo, che spazia in una visione ultraterrena. La giovane ebrea cova, già, il
presentimento della tragedia, che incombe sulla sua fragile esistenza in balia
delle forze del male.
Dapprima,
indugia sulle immagini felici della vita di donna, l’opalescente abito da sposa
della madre, la sua nascita, la sua infanzia e gli intimi colloqui con la
madre.
Poi,
le immagini si fanno più rapide e le completa con frasi scritte a stampatello.
Come
in un tragico fumetto, ora, Charlotte rappresenta la distruzione e la
persecuzione:
“Fuori gli ebrei!”
“Vendetta sugli ebrei, distruzione sui loro templi!”
E
i fogli dei libri sacri sono sparsi fuori del tempio, sull’asfalto.
“Andate a casa o prenderemo anche voi!”,
ringhiano
i carcerieri nazisti alle donne, che si accalcano ai cancelli e chiedono
notizie dei deportati.
“Vai a casa, bestia di una piccola ebrea!”,
dicono
a Charlotte.
Presto,
presto, Charlotte deve raccontare tutto.
“In due anni eseguì un migliaio di tempere, oltre a innumerevoli
pastelli e acquarelli.”,
ricorda
Emil Strauss:
“Era come invasata: si nutriva e dormiva appena, dedita
completamente alla sua Arte che la dominava come un’autentica passione […]. Su
uno degli ultimi […] dipinti annotava:
– Ero mortalmente infelice perché mi rendevo conto che la mia
antica sfiducia negli uomini riprendeva il sopravvento […]. Dovevo restare
ancora nella mia solitudine… perché solo così potevo, forse, trovare ciò che
cercavo: me stessa… La guerra continuava, e io sedevo sulla spiaggia a guardare
intensamente nel cuore degli uomini. Ero mia madre, la nonna, tutti i
personaggi della mia opera. Ho imparato a percorrere tutte le strade e sono
divenuta me stessa. –”
Proprio
così, ha scritto Charlotte: la guerra infuriava e lei guardava nel cuore degli
uomini; diveniva, di volta in volta, la madre e la nonna, ma anche “tutti i personaggi della mia opera”.
Anche
nel cuore dei persecutori ha guardato Charlotte, dunque, e, forse, ha potuto
comprendere quale sia il meccanismo che trasforma gli esseri umani in belve.
“Ho appreso a percorrere tutte le strade.”,
scrive.
In
una delle sue ultime immagini mostra se stessa in un raggiare di pennellate
azzurro-oro.
La
giovane donna spalanca le braccia e grida:
“Dio, mio Dio, come tutto è bello!”
Ultimo
straziante canto d’Amore per il creato, in un mondo dove gli uomini si
esprimono uccidendo.
Febbraio
1943: muore il nonno affidato alle sue cure, nella villa di Nizza ormai
deserta.
La
guerra si avvicina.
Charlotte
è libera di sposare l’uomo che ama, un matrimonio, avversato dal nonno.
La
cerimonia viene celebrata, in maggio, nel municipio di Nizza.
La
sera del 21 settembre, intorno alle sette, agenti della Gestapo compaiono
davanti alla casa, con un autocarro, su cui gettano Charlotte e suo marito.
Vengono
deportati ad Auschwitz e non faranno mai più ritorno.
Daniela Zini
Copyright © 29 maggio 2013 ADZ
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