lunedì 13 maggio 2013

LESBIA mille e mille baci e un cuore di pietra di Daniela Zini


Nei carmi immortali di Catullo rivive la cronaca di un Amore e il ritratto di una classe corrotta.
Catullus at Lesbia’s [1865] – Sir Lawrence Alma-Tadema  [1836-1912]

LESBIA
mille e mille baci e un cuore di pietra

Lesbia  [1878]  -  John Reinhard Weguelin [1849–1927]

LI
Ille mi par esse deo videtur,
ille, si fas est, superare divos,
qui sedens adversus identidem te
spectat et audit
dulce ridentem, misero quod omnis
eripit sensus mihi: nam simul te,
Lesbia, aspexi, nihil est super mi
[…]
lingua sed torpet, tenuis sub artus
flamma demanat, sonitu suopte
tintinant aures gemina teguntur
lumina nocte.
Otium, Catulle, tibi molestum est:
otio exsultas nimiumque gestis:
otium et reges prius et beatas
perdidit urbes.

Una Roma invasa dall’oro di colossali bottini strappati all’Oriente mediterraneo, sempre più sorda alle rare voci, che, ancora, citano a esempio le virtù dei maiores, e sempre più cedevole alle lusinghe di un vivere molle e spregiudicato, è quella in cui, nell’anno 62 a.C., Gaio Valerio Catullo [84 a.C.-54 a.C.] mette piede per la prima volta. Ha ventidue anni – secondo le più attendibili testimonianze – e, fino allora, ha diviso il proprio tempo tra l’avita casa di Verona, da secoli appartenente alla Gens Valeria, cospicua famiglia della Gallia Transpadana, e una deliziosa villa in riva al Garda, proprio sulla punta di Sirmione. Una rapida carriera politica o una brillante gloria forense è, nei propositi dei genitori, scopo del suo viaggio nella capitale; lui, invece, già, sogna di scalare il Parnaso e di sedervi di diritto tra cori osannanti di Muse. Ma non è un’attività precisamente culturale quella cui si dedica appena giunto. La metropoli brulicante e chiassosa e i mille aspetti della sua vita, tra le feroci lotte forensi, il lusso smaccato dei quartieri alti, la sordida, corrotta miseria dei vicoli malfamati della Subura, costituiscono per lui, avvezzo al quieto e sornione conformismo della provincia, troppo affascinanti novità per rinunciare a scoprirle. I mezzi finanziari non gli mancano; acquista, dunque, una casa in centro e una villa a Tivoli, e si butta, con tutta la curiosità e l’avventata baldanza della sua giovinezza, nella esistenza irregolare e scapigliata degli artisti di tutti i tempi, nei facili amori mercenari, nelle notti di crapula tra una taverna e l’altra.

XLIV
O funde noster seu Sabine seu Tiburs
(nam te esse Tiburtem autumant, quibus non est
cordi Catullum laedere; at quibus cordi est,
quovis Sabinum pignore esse contendunt),
sed seu Sabine sive verius Tiburs,
fui libenter in tua suburbana
villa, malamque pectore expuli tussim,
non inmerenti quam mihi meus venter,
dum sumptuosas appeto, dedit, cenas.
Nam, Sestianus dum volo esse conviva,
orationem in Antium petitorem
plenam veneni et pestilentiae legi.
Hic me gravedo frigida et frequens tussis
quassavit usque, dum in tuum sinum fugi,
et me recuravi otioque et urtica.
Quare refectus maximas tibi grates
ago, meum quod non es ulta peccatum.
Nec deprecor iam, si nefaria scripta
Sesti recepso, quin gravedinem et tussim
non mihi, sed ipsi Sestio ferat frigus,
qui tunc vocat me, cum malum librum legi.

Presto si unisce, in questa sua capillare scoperta dei segreti dell’Urbe, a una compagnia di quei giovani intellettuali, poeti quasi tutti e seguaci della nuova estetica alessandrina, allora venuta di moda, che i vecchi padri delle lettere chiamano neoteroi o poetae novi e che Quinto Orazio Flacco [65 a.C.-8 a.C.] dileggia, accanitamente, nelle sue satire come arrivisti senza talento. Sono loro a presentare il nuovo arrivato in casa del console Quinto Cecilio Metello Celere [103 a.C.-59 a.C.], personaggio politico di qualche rilievo e vir probus, a detta di tutti gli storici, ma che, troppo preso dai problemi della cosa pubblica, trascura, eccessivamente, le cose sue private e, precipuamente, sua moglie, Clodia [94 a.C. ca.-post 45 a.C.).

Baia
Nullus in orbe sinus Baiis praelucet amoenis.
Quintus Horatius Flaccus, Ep. I,I,84

Tenere salotto letterario è il minimo che possa fare costei per consolarsi; e, in verità, fa anche molto altro. Attorno alla bellissima Clodia – perché bellissima tutti la proclamano, anche a non volersi fidare dei giudizi, scarsamente obiettivi, fornitici dalla poesia catulliana, e colta, intelligente, raffinata, elegante, dotata di grande stile e di quel pizzico di snobismo che non guasta – nella sua casa sul Palatino o nella sua villa di Baia, durante la passeggiata al foro o all’ora del bagno alle terme, si raccoglie, infatti, una scelta schiera di giovani di brillanti speranze e di meno giovani, ma con qualche gloria al loro attivo: Cornelio Nepote [100 a.C. ca.-27 a.C. ca.], Gaio Asinio Pollione [76 a.C. – 4 d.C.], Gaio Elvio Cinna [85 a.C. ca.-44 a.C.), Gaio Licinio Calvo [82 a.C.-47 a.C.], Tito Manlio Torquato, tutti noti alla storia letteraria, sono i suoi fedelissimi; e tutti si mostrano più o meno sensibili al suo fascino, tutti, più o meno scopertamente, la corteggiano. Perfino il già maturo Marco Tullio Cicerone [106 a.C.-43 a.C.], con tutta la sua saggia e ironica bonomia e con la sua autorità di uomo pubblico, appena un anno prima, al tempo della congiura di Catilina, proclamato Padre della Patria, mostrava di ammirarla e lodarla con eccessivo calore, se non altro a giudizio di Terenzia, gelosissima sua consorte.
Ma per Catullo, questa aristocratica di antico ceppo romano, figlia di Appio Claudio Pulcro [97 a.C.-49 a.C.] e di Cecilia Metella Balearica Minore [...-89 a.C.] appartenente alla nobilissima Gens Claudia e discendente diretta di Appio Claudio il Cieco [350 a.C.-271 a.C.), che assume volentieri, sull’esempio del fratellastro, il tribuno della plebe Publio Clodio Pulcro [93 a.C.-52 a.C.], atteggiamenti politici progressisti – ha mutato il proprio nome da Claudia in Clodia, secondo la pronuncia popolare del nome, che prevede la chiusura delle vocali – questa matrona dal tratto perfetto, ma sul cui conto corrono molti pettegolezzi circa la sua facilità ad avventure extra-coniugali e, perfino, circa alcuni suoi torbidi rapporti con il fratellastro (lo stesso Catullo sembra confermarlo nel Carme LXXIX), rappresenta, da subito, qualcosa di molto più importante di una avvenente donna da corteggiare e, voglia il cielo, da conquistare; presto, diviene, ai suoi occhi, la quintessenza della femminilità, con tutte le sue attrattive, il suo mistero, la sua peccaminosità, i suoi veleni.

LXXXVI
Quintia formosa est multis. Mihi candida, longa,
recta est: haec ego sic singula confiteor.
Totum illud formosa nego: nam nulla venustas,
nulla in tam magno est corpore mica salis.
Lesbia formosa est, quae cum pulcerrima tota est,
tum omnibus una omnis surripuit Veneres.

“Lesbia è bella perché è bellissima tutta, ha rubato ogni grazia a tutte le fanciulle.”,
scriverà, poco dopo, regalandole quel nome carico di antiche e preziose memorie poetiche, sotto cui, per secoli, resterà celata la sua identità vera.  
Secondo una indicazione di Lucio Apuleio da Madaura [125 d.C.-170 ca. d.C.] , nel capitolo X della sua Apologia o Pro se de magia liber, Lesbia – così chiamata da Catullo, in onore di Saffo – è da identificare con una Clodia.

“[…] Habes crimen meum, Maxime, quasi improbi comisatoris de sertis et canticis compositum. Hic illud etiam reprehendi animadvertisti, quod, cum aliis nominibus pueri vocentur, ego eos Charinum et Critian appellitarim. Eadem igitur opera accusent C. Catullum, quod Lesbiam pro Clodia nominarit, et Ticidam similiter, quod quae Metella erat Perillam scripserit, et Propertium, qui Cunthiam dicat, Hostiam dissimulet, et Tibullum, quod ei sit Plania in animo, Delia in versu. […]”

Nel XIX secolo, lo studioso tedesco Georg Franz Ludwig Friedrich von Schwabe [1835-1908], nella sua ricostruzione della vita del poeta, Quaestiones Catullianae [1862], identifica Lesbia-Clodia  con la moglie di Quinto Cecilio Metello Celere.
 “[...] Hoc unam ex locis non nullis concludere licet Clodiam, cum eius amore Catullum inflammaretur, iam Q. Metelli uxorem fuisse. [...]”
Lei, di dieci anni più anziana e provvista di una esercitata esperienza, aggiunta al naturale intuito di donna, non tarda, certo, ad avvedersi dell’amore acceso in petto al giovane poeta. Lui non osa parlare e traduce odi di Saffo, cercandovi riflessi del suo stesso sentire, mentre “già ardeva come la rupe Trinacria e la Fonte Malia alle Termopili, e i suoi mesti occhi non cessavano di struggersi in assiduo pianto”.

LXVIII
[…]
Cum tantum arderem quantum Trinacria rupes
lymphaque in Oetaeis Malia Thermopylis.
Maesta neque assiduo tabescere pupula fletu
cessaret.Tristique imbre madere genae.
[…]

Lei deve seguire, con compiacimento, la sua crescente passione, fingendo di nulla, e, già, pregustando la saporosa avventura.
Quel poeta biondo, poco più che ventenne, appena giunto dalla provincia, ancora con tutto l’impaccio e la timidezza della severa educazione ricevuta, a dispetto della spavalderia, volutamente ostentata, le promette qualcosa di nuovo e di vivo, qualcosa di diverso dai troppi amori, superficiali, distratti e cinici del suo ambiente. Quando, infine, decide di concedersi all’appassionato spasimante, sa, perfettamente, come comportarsi per innamorarlo più che mai, sa come apparirgli per non deludere quella immagine di lei che si è costruito, sa benissimo recitare la parte di Lesbia.

CIX
Iucundum, mea vita, mihi proponis amorem
hunc nostrum inter nos perpetuumque fore.
Di magni, facite ut vere promittere possit,
atque id sincere dicat et ex animo,
ut liceat nobis tota perducere vita
aeternum hoc sanctae foedus amicitiae.

E assume con lui atteggiamenti ingenui, infantili e bamboleggianti; puella la chiama, costantemente, lui, nei suoi versi.
E piange alla morte di un passero, che era la sua delizia.

Lesbia and her Sparrow – Sir Edward John Poynter [1836-1919]

III
Lugete, o Veneres Cupidinesque,
et quantum est hominum venustiorum:
passer mortuus est meae puellae,
passer, deliciae meae puellae,
quem plus illa oculis suis amabat.
Nam mellitus erat suamque norat
ipsam tam bene quam puella matrem,
nec sese a gremio illius movebat,
sed circumsiliens modo huc modo illuc
ad solam dominam usque pipiabat.
Qui nunc it per iter tenebricosum
illuc, unde negant redire quemquam.
At vobis male sit, malae tenebrae
Orci, quae omnia bella devoratis:
tam bellum mihi passerem abstulistis.
O factum male! O miselle passer!
Tua nunc opera meae puellae
flendo turgiduli rubent ocelli.

E finge scrupoli e timori del giudizio della gente.
“Viviamo, Lesbia, e amiamoci.”,
la consola lui,
“I vecchi mormorano? Lasciamoli mormorare: le loro parole non valutiamole più di una moneta fuori corso.”
 
V
Vivamus mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis!
Soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
Da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
Dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.

E, recita, diligentemente, la parte della signora per bene che, cedendo a una travolgente passione, deve, nondimeno, salvare le apparenze.
“Quando tuo marito era presente, o amor mio, tu parlavi male di me. Ciò gli faceva tanto piacere. Ma che balordo!”,
ride compiaciuto l’inesperto giovane, che prende per buona tutta la commedia.

LXXXIII
Lesbia mi praesente viro mala plurima dicit:
haec illi fatuo maxima laetitia est.
Mule, nihil sentis? Si nostri oblit
a taceret,
sana esset: nunc quod gannit et obloquitur,
non solum meminit, sed, quae multo acrior est res,
irata est.
Hoc est, uritur et loquitur.

Presto anche le difficoltà “tecniche”dei primi tempi sono superate. Allio, un fido amico, fa il nome di una compiacente signora, disposta a ospitare la coppia clandestina: allora “felici giorni di sole per te, Catullo, risplendettero”, e “per quelle cose che tu volevi, lei non diceva di no”. Seppure per poco, forse, di fronte alla sincerità del giovane, Clodia riesce a trovare un autentico trasporto, anche a credersi, davvero, innamorata; e lui scambia, di certo, per incontenibile passione, ciò che è in lei libidine e preziosità di sapienza erotica, e sa alleggerire la violenza dei propri sensi con accenti di struggente tenerezza, chiedendole baci senza fine, con l’insistenza di un gioco infantile, mille baci e ancora cento e altri mille e ancora cento:
“Tu mi domandi, o Lesbia, quanti dei tuoi baci mi bastino e mi siano d’avanzo? Quanti sono i grani di sabbia della Libia, quante sono le stelle che, nella notte silenziosa, guardano i furtivi amori degli uomini. Tanti baci tu devi dare a questo pazzo di Catullo.”

II
Quaeris, quot mihi basiationes
tuae, Lesbia, sint satis superque.
Quam magnus numerus Libyssae harenae
lasarpiciferis iacet Cyrenis
oraclum Iouis inter aestuosi
et Batti veteris sacrum sepulcrum;
aut quam sidera multa, cum tacet nox,
furtiuos hominum vident amores:
tam te basia multa basiare
vesano satis et super Catullo est,
quae nec pernumerare curiosi
possint nec mala fascinare lingua.

Quando una notte Clodia spinge l’audacia fino a sgusciare, silenziosamente, fuori del letto coniugale per raggiungerlo, e lui si commuove e crede, ciecamente, ai suoi tremori: “piena di verecondo pudore era la tua colpa quella notte”, la felicità del poeta non ha più misura, sente il bisogno di proclamarla, gridando a gran voce, con gioia proterva e baldanzosa volgarità, il suo disprezzo per tutte le altre, tutte brutte, scialbe, tozze, grossolane e sgraziate a paragone della sua donna.
Ma la felicità ha breve durata.
“Ora lei non vuole più...”,
esclama sbigottito Catullo; forse, non soffre ancora, è solo incredulo di fronte a questa improvvisa volubilità, di cui non riesce a tenere il tempo; non ha, ancora, compreso che Clodia, donna dissoluta, di sfrenata incontinenza e di cuore secco, non può restare, a lungo, fedele a un solo uomo, e tanto meno se questi è, come lui, innamorato in modo totale ed esclusivo; non si rende conto, ancora, che, passato il piacere della novità, le sue fantasiose dichiarazioni la annoiano, la sua gelosia le riesce scomoda. In realtà, non sa, ancora, chi sia veramente Clodia, quanto sia diversa dalla Lesbia dei suoi sogni. È troppo recente il ricordo delle carezze e delle promesse di lei, perché possa credere che tutto sia finito; si sente ancora forte e cerca di mostrarsi all’altezza della situazione e vuole fingere indifferenza:
“Addio! Catullo è, ormai, ben deciso e resiste e non ti pregherà più. Ma sarai tu a pentirti quando non ti sentirai più pregata. Ahimé per te, ingrata! Che vita sarà la tua? Chi ti amerà come me? A chi sembrerai bella come sembri a me? A chi darai i tuoi baci, a chi morderai con i tuoi baci le labbra?”

VIII
Miser Catulle, desinas ineptire,
et quod vides perisse perditum ducas.
Fulsere quondam candidi tibi soles,
cum ventitabas quo puella ducebat
amata nobis quantum amabitur nulla.
Ibi illa multa cum iocosa fiebant,
quae tu volebas nec puella nolebat,
fulsere vere candidi tibi soles.
Nunc iam illa non vult: tu quoque impotens noli,
nec quae fugit sectare, nec miser vive,
sed obstinata mente perfer, obdura.
Vale puella, iam Catullus obdurat,
nec te requiret nec rogabit invitam.
At tu dolebis, cum rogaberis nulla.
Scelesta, vae te, quae tibi manet vita?
Quis nunc te adibit? Cui videberis bella?
Quem nunc amabis? Cuius esse diceris?
Quem basiabis? Cui labella mordebis?
At tu, Catulle, destinatus obdura.

E mostra di non prendere sul serio gli altri corteggiatori, a lui in quel momento preferiti: quello zotico di Marco Celio Rufo [82 a.C.-48 a.C.], che può profumarsi finché vuole, ma che puzzerà sempre, quell’immorale di Gallio, che è stato citato in giudizio per incesto, e quel bellimbusto di Egnazio che ride, ride sempre, solo per mettere in mostra i suoi candidi denti.

XXXIX
Egnatius, quod candidos habet dentes,
renidet usque quaque. Si ad rei ventum est
subsellium, cum orator excitat fletum,
renidet ille; si ad pii rogum fili
lugetur, orba cum flet unicum mater,
renidet ille. Quidquid est, ubicumque est,
quodcumque agit, renidet: hunc habet morbum,
neque elegantem, ut arbitror, neque urbanum.
Quare monendum est te mihi, bone Egnati.
Si urbanus esses aut Sabinus aut Tiburs
aut pinguis Vmber aut obesus Etruscus
aut Lanuuinus ater atque dentatus
aut Transpadanus, ut meos quoque attingam,
aut quilubet, qui puriter lavit dentes,
tamen renidere usque quaque te nollem:
nam risu inepto res ineptior nulla est.
Nunc Celtiber es: Celtiberia in terra,
quod quisque minxit, hoc sibi solet mane
dentem atque russam defricare gingivam,
ut quo iste vester expolitior dens est,
hoc te amplius bibisse praedicet loti.

Ride Catullo e aggredisce i suoi rivali con il suo più sboccato linguaggio, con le sue più violente metafore, ma il suo riso è amaro, contorto come una smorfia di dolore.


XXXVII
Salax taberna vosque contubernales,
a pilleatis nona fratribus pila,
solis putatis esse mentulas vobis,
solis licere, quidquid est puellarum,
confutuere et putare ceteros hircos?
An, continenter quod sedetis insulsi
centum an ducenti, non putatis ausurum
me una ducentos irrumare sessores?
Atqui putate: namque totius vobis
frontem tabernae sopionibus scribam.
Puella nam mi, quae meo sinu fugit,
amata tantum quantum amabitur nulla,
pro qua mihi sunt magna bella pugnata,
consedit istic. Hanc boni beatique
omnes amatis, et quidem, quod indignum est,
omnes pusilli et semitarii moechi;
tu praeter omnes une de capillatis,
cuniculosae Celtiberiae fili,
Egnati. Opaca quem bonum facit barba
et dens Hibera defricatus urina.

Ormai, inizia a conoscere il vero fondo di quella società romana corrotta e superficiale, misera nel suo stesso sforzo verso il piacere, e ha iniziato a comprendere come di questa pasta sia anche Clodia, abbandonata all’onda della sensualità con una assenza di scrupoli, che, forse, non è neppure consapevole e crudele cinismo, ma solo distratta leggerezza, vizio invecchiato, frigida incapacità di affetto.

LXXIX
Lesbius est pulcer. Quid ni? Quem Lesbia malit
quam te cum tota gente, Catulle, tua.
Sed tamen hic pulcer vendat cum gente Catullum,
si tria natorum suavia reppererit.

Così, quando lei, con la stessa svagata volubilità, con la quale lo ha lasciato, torna a lui, dopo la prima esplosione di gioia:
“Lesbia, tu, Lesbia, torni qui tra le mie braccia. O giorno luminoso! Che duri eterno!”,

CVII
Si quicquam cupido optantique obtigit umquam
insperanti, hoc est gratum animo proprie.
Quare hoc est gratum nobis quoque, carius auro,
quod te restituis, Lesbia, mi cupido,
restituis cupido atque insperanti, ipsa refers te
nobis. O lucem candidiore nota!
Quis me uno vivit felicior, aut magis hac res
optandas vita dicere quis poterit?

non sa più trovare la fede di prima:
“Che non sarà mai di nessun altro, dice la mia donna, soltanto mia, dovesse tentarla anche Giove. Dice: ma ciò che donna dice a un amante, scrivilo nel vento o in acqua che va rapida.”

LXX
Nulli se dicit mulier mea nubere malle
quam mihi, non si se Iuppiter ipse petat.
Dicit: sed mulier cupido quod dicit amanti,
in vento et rapida scribere oportet aqua.

Catullo ha compreso anche che, peccatrice avida e sfrenata, impenitente mentitrice, Clodia non riuscirà più a strapparsela dal cuore; e viene a tristi, avvilenti compromessi:
“Se questo povero Catullo non ti basta più da solo, sopporteremo i furti della tua infedeltà…”;
e cerca di minimizzare le cose:
“La donna è desiderosa di cambiare compagnia. Vediamo, quindi, di ragionare, o Catullo: Lesbia non è tua… Lesbia appartiene a Metello. Lesbia ha, poi, tradito Metello per te, e, ora tradisce te per altri. Ma ragioniamo con calma, o Catullo. Anche Giove tradiva Giunone…”
 
LXVIII
Quae tamen etsi uno non est contenta Catullo
rara verecundae furta feremus erae
ne nimium simus stultorum more molesti.
Saepe etiam Iuno, maxima caelicolum,
coniugis in culpa flagrantem concoquit iram,
noscens omnivoli plurima furta Iovis.
Atqui nec divis homines componier aequum est.
[…]
ingratum tremuli tolle parentis onus.
Nec tamen illa mihi dextra deducta paterna
fragrantem Assyrio venit odore domum,
sed furtiva dedit mira munuscula nocte
ipsius ex ipso dempta uiri gremio.
Quare illud satis est si nobis is datur unis
quem lapide illa dies candidiore notat.
Hoc tibi quod potui confectum carmine munus
pro multis Alli redditur officiis.
ne uestrum scabra tangat rubigine nomen
haec atque illa dies atque alia atque alia.

Poi, conclude, amaramente:
“A questo, Lesbia, per tuo e per mio amore, mi sono ridotto, e perduto è il mio onore: non potrei più volerti bene, anche se tu divenissi una donna onesta, né potrei cessare di desiderarti, anche se divenissi più spudorata di quello che sei.” 

 LXXV
Huc est mens deducta tua mea, Lesbia, culpa
atque ita se officio perdidit ipsa suo,
ut iam nec bene velle queat tibi, si optima fias,
nec desistere amare, omnia si facias.

Nel 59 a.C., muore Quinto Cecilio Metello Celere, e per tutta Roma – tale, ormai, la fama goduta dalla sua sposa – circola, con insistenza, la voce che sia stata proprio lei, a spedirlo agli inferi con una buona dose di veleno, per liberarsi di quell’incomodo controllore delle sue sregolatezze. Vera o falsa che sia questa notizia, è certo che, dopo la morte del marito, Clodia non conosce più freni; orge sempre più scatenate, tra ospiti di qualità sempre più dubbia, hanno luogo, ogni sera, in casa sua, tra fiumi di Falerno e di Massico; o, addirittura, si trascina da una taverna all’altra, offrendosi a chiunque, e, perfino, accettandone danaro.

LVIII
Caeli, Lesbia nostra, Lesbia illa.
Illa Lesbia, quam Catullus unam
plus quam se atque suos amavit omnes,
nunc in quadriviis et angiportis
glubit magnanimi Remi nepotes.

“La mia Lesbia, quella famosa Lesbia, quella Lesbia che Catullo amava, solo lei, più di se stesso, più di tutto, ora per gli angiporti e i quadrivii scortica i magnanimi nipoti di Remo.”, piange il poeta.

XCII
Lesbia mi dicit semper male nec tacet umquam
de me: Lesbia me dispeream nisi amat.
Quo signo? Quia sunt totidem mea: deprecor illam
assidue, verum dispeream nisi amo.

Ma non ha forza di rifiutare le briciole della lussuria che Clodia, di tanto in tanto, gli concede.
“Figlia di una leonessa sei, hai un cuore di pietra.”,
la accusa, poi, subito.

LX
Num te leaena montibus Libystinis
aut Scylla latrans infima inguinum parte
tam mente dura procreavit ac taetra,
ut supplicis vocem in novissimo casu
contemptam haberes, a nimis fero corde?

“Ma come sei bella, come sei bella!”,
sospira innamorato più che mai.
“La odio e la amo. Se vuoi sapere perché, non lo so dire. È così. È un martirio.”

 LXXXV
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

In quegli anni è Marco Celio Rufo, lo zotico di cui Catullo ha creduto di poter ridere impunemente, a godere sugli altri dei favori di Clodia: una relazione, che termina con una impudica esibizione di panni sudici, in un clamoroso processo, in cui lei lo accusa di averle estorto danaro e di aver tentato di avvelenarla. Difensore di Marco Celio Rufo è Marco Tullio Cicerone, ed è proprio Marco Tullio Cicerone, quel galantuomo che sa dire, con tanta signorilità, cose così sottilmente cattive, quando vuole – e, in questo caso, tornato dopo un anno e mezzo di esilio, voluto dai democratici per punirlo della violenza con cui, da console, ha represso la congiura di Lucio Sergio Catilina [108 a.C.-62 a.C.], ha le sue buoni ragioni – a darci il ritratto più crudo e perverso di questa “matrona non solo nobile, ma ampiamente famosa”, che lascia aperte le porte di casa sua, pronta a ricevere chiunque si presenti, e che all’aspetto, al linguaggio, agli sguardi, a tutto il comportamento, pare “non una meretrice, ma una sfacciata meretrice”.

“[...] Si quae non nupta mulier domum suam patefecerit omnium cupiditati palamque sese in meretricia vita collocarit, virorum alienissimorum conviviis uti instituerit, si hoc in urbe, si in hortis, si in Baiarum illa celebritate faciat, si denique ita sese gerat non incessu solum, sed ornatu atque comitatu, non flagrantia oculorum, non libertate sermonum, sed etiam complexu, osculatione, actis, navigatione, conviviis, ut non solum meretrix, sed etiam proterva meretrix procaxque videatur: cum hac si qui adulescens forte fuerit, utrum hic tibi, L. Herenni, adulter an amator, expugnare pudicitiam an explere libidinem voluisse videatur? [...]”
Marcus Tullius Cicero, Pro Marco Caelio, IXL

“Parlerei con maggior veemenza di lei,”,
insinua, a un certo punto, l’avvocato,
“se non esistessero vecchie ruggini tra me e suo marito, scusate, volevo dire suo fratello, mi sbaglio sempre; il fratello che tanto l’ama e che, forse, per timidezza, o per qualche paura notturna, da giovinetto, così spesso, dormì con lei, la sua sorella maggiore.”

“[...] Sed intellegis pro tua praestanti prudentia, Cn. Domiti, cum hac sola rem esse nobis. Quae si se aurum Caelio commodasse non dicit, si venenum ab hoc sibi paratum esse non arguit, petulanter facimus, si matrem familias secus, quam matronarum sanctitas postulat, nominamus. Sin ista muliere remota nec crimen ullum nec opes ad oppugnandum Caelium illis relinquuntur, quid est aliud quod nos patroni facere debeamus, nisi ut eos, qui insectantur, repellamus? Quod quidem facerem vehementius, nisi intercederent mihi inimicitiae cum istius mulieris viro – fratre volui dicere; semper hic erro. Nunc agam modice nec longius progrediar quam me mea fides et causa ipsa coget. Neque enim muliebres umquam inimicitias mihi gerendas putavi, praesertim cum ea quam omnes semper amicam omnium potius quam cuiusquam inimicam putaverunt. [...]”
Marcus Tullius Cicero, Pro Marco Caelio, XXXII

Catullo ha, ormai, deciso di rompere un rapporto che è, per lui, solo sofferenza e degradazione:
“Non vi è altra cura che estirpare dalle viscere questo amore. Ma è difficile liberarsi di un male così invecchiato. Molto difficile.”;
tuttavia, vuole riuscirvi e prega:
“O, buoni dei, ora non vi domando quello che vi domandavo un tempo, che lei mi amasse, oppure quello che neppure voi potete fare, che a lei venga in mente di essere una donna onesta; ma che io guarisca di questo orribile male. Liberatemi di lei, di questo male d’amore.”

LXXVI
Siqua recordanti benefacta priora voluptas
est homini, cum se cogitat esse pium,
nec sanctam violasse fidem, nec foedere nullo
divum ad fallendos numine abusum homines,
Multa parata manent in longa aetate, Catulle,
ex hoc ingrato gaudia amore tibi.
Nam quaecumque homines bene cuiquam aut dicere possunt
aut facere, haec a te dictaque factaque sunt.
Omnia quae ingratae perierunt credita menti.
Quare iam te cur amplius excrucies?
Quin tu animo offirmas atque istinc teque reducis,
et dis invitis desinis esse miser?
Difficile est longum subito deponere amorem,
difficile est, verum hoc qua lubet efficias:
una salus haec est. Hoc est tibi pervincendum,
hoc facias, sive id non pote sive pote.
O di, si vestrum est misereri, aut si quibus umquam
extremam iam ipsa in morte tulistis opem,
me miserum aspicite et, si vitam puriter egi,
eripite hanc pestem perniciemque mihi,
quae mihi subrepens imos ut torpor in artus
expulit ex omni pectore laetitias.
Non iam illud quaero, contra me ut diligat illa,
aut, quod non potis est, esse pudica velit:
ipse valere opto et taetrum hunc deponere morbum.
O di, reddite mi hoc pro pietate mea.

Il rimedio migliore è ancora quello di andarsene, di mettere mari e terre tra sé e i luoghi carichi di tenere memorie e di offensive testimonianze: seguire il pretore Gaio Memmio, in partenza per la Bitinia, potrà, tra l’altro, aiutarlo a ricostituire il proprio patrimonio, cui la vita disordinata e l’amore di Clodia hanno aperto falle preoccupanti. Al suo ritorno, tuttavia, nel 55 a.C., le sue finanze non stanno meglio; anzi, in alcuni versi dedicati ad amici, scherza sulla propria borsa “piena di ragnatele”, e su certi inviti a pranzo che può permettersi a patto che gli ospiti si portino cibi, bevande e, perfino, stoviglie di proprio.

XIII
Cenabis bene, mi Fabulle, apud me
paucis, si tibi di favent, diebus,
si tecum attuleris bonam atque magnam
cenam, non sine candida puella
et vino et sale et omnibus cachinnis.
Haec si, inquam, attuleris, venuste noster,
cenabis bene; nam tui Catulli
plenus sacculus est aranearum.
Sed contra accipies meros amores
seu quid suavius elegantiusue est:
nam unguentum dabo, quod meae puellae
donarunt Veneres Cupidinesque,
quod tu cum olfacies, deos rogabis,
totum ut te faciant, Fabulle, nasum.

Ma, ciò che più conta, sono migliorate le condizioni del suo cuore; un soggiorno nella nativa Sirmione lo aiuta ancora.

XXXI
Paene insularum, Sirmio, insularumque
ocelle, quascumque in liquentibus stagnis
marique vasto fert uterque Neptunus,
quam te libenter quamque laetus inviso,
vix mi ipse credens Thuniam atque Bithunos
liquisse campos et videre te in tuto.
O quid solutis est beatius curis,
cum mens onus reponit, ac peregrino
labore fessi venimus larem ad nostrum,
desideratoque acquiescimus lecto?
Hoc est quod unum est pro laboribus tantis.
Salve, o venusta Sirmio, atque ero gaude
gaudente, vosque, o Lydiae lacus undae,
ridete quidquid est domi cachinnorum.

Grotte di Catullo - Sirmione

 Grotte di Catullo - Sirmione
 
 Grotte di Catullo - Sirmione

 
 Grotte di Catullo - Sirmione
 Grotte di Catullo - Sirmione

Grotte di Catullo - Sirmione

Grotte di Catullo - Sirmione


 Grotte di Catullo - Sirmione

Al suo rientro nella capitale, trova il coraggio di tenersi lontano da Clodia.    
È lei, anzi, ora, a rifarsi viva.
Un improvviso risveglio di fiamma?
O – ciò che è più probabile – risentimento di donna che non sopporta di essere abbandonata, e desidera riavere, in suo potere, l’uomo che era stato suo in maniera così esclusiva?

XXXV
Poetae tenero, meo sodali,
velim Caecilio, papyre, dicas
Veronam veniat, Novi relinquens
Comi moenia Lariumque litus.
Nam quasdam volo cogitationes
amici accipiat sui meique.
Quare, si sapiet, viam vorabit,
quamvis candida milies puella
euntem revocet, manusque collo
ambas iniciens roget morari.
Quae nunc, si mihi vera nuntiantur,
illum deperit impotente amore.
Nam quo tempore legit incohatam
Dindymi dominam, ex eo misellae
ignes interiorem edunt medullam.
Ignosco tibi, Sapphica puella
musa doctior; est enim venuste
Magna Caecilio incohata Mater.

Catullo, tuttavia, non si lascia più irretire dalle sue lusinghe.
“Che si goda i suoi trecento amanti, dei quali nessuno ama, mentre a tutti schianta i reni.”, risponde, con oltraggioso disprezzo, quando gli invia due comuni amici nel tentativo di riallacciare.

XI
Furi et Aureli comites Catulli,
sive in extremos penetrabit Indos,
litus ut longe resonante Eoa
tunditur unda,
sive in Hyrcanos Arabesue molles,
seu Sagas sagittiferosue Parthos,
sive quae septemgeminus colorat
aequora Nilus,
sive trans altas gradietur Alpes,
Caesaris visens monimenta magni,
Gallicum Rhenum horribile aequor ultimosque Britannos,
omnia haec, quaecumque feret voluntas
caelitum, temptare simul parati,
pauca nuntiate meae puellae
non bona dicta.
Cum suis vivat valeatque moechis,
quos simul complexa tenet trecentos,
nullum amans vere, sed identidem omnium
ilia rumpens;
nec meum respectet, ut ante, amorem,
qui illius culpa cecidit velut prati
ultimi flos, praetereunte postquam
tactus aratro est.

Tutto ciò che desidera è riavere solo alcuni suoi manoscritti che lei ha trattenuto; e poiché Lesbia, come ultima sterile vendetta, rifiuta di restituirglieli, allora il poeta la insulta senza misura, la tratta da “sporca sgualdrina”, oppure la chiama “pudica, virtuosa, onesta fanciulla”, con una ironia non meno sferzante; con una violenza e un rancore in cui è, forse, ancora una traccia di amore, anche se vuole convincere lei e se stesso che non ha più rimpianti:
“La nostra Lesbia, da noi tanto amata, dunque, non è esistita, non esiste. Oppure è morta. La sua bara sta dentro il nostro cuore.” 

XLII
Adeste, hendecasyllabi, quot estis
omnes undique, quotquot estis omnes.
Iocum me putat esse moecha turpis,
et negat mihi nostra reddituram
pugillaria, si pati potestis.
Persequamur eam et reflagitemus.
Quae sit, quaeritis? Illa, quam videtis
turpe incedere, mimice ac moleste
ridentem catuli ore Gallicani.
Circumsistite eam, et reflagitate,
“Moecha putida, redde codicillos,
redde putida moecha, codicillos!”
Non assis facis? O lutum, lupanar,
aut si perditius potes quid esse.
Sed non est tamen hoc satis putandum.
Quod si non aliud potest ruborem
ferreo canis exprimamus ore.
Conclamate iterum altiore voce.
“Moecha putide, redde codicillos,
redde, putida moecha, codicillos!”
Sed nil proficimus, nihil movetur.
Mutanda est ratio modusque vobis,
siquid proficere amplius potestis:
“Pudica et proba, redde codicillos.”

Pochi mesi dopo, una vera bara accoglieva le spoglie del poeta trentenne.
  

Daniela Zini
Copyright © 29 maggio 2012

Nessun commento:

Posta un commento