Juliette RECAMIER
[4 dicembre 1777 – 11 maggio 1849]
l’Angelo Fatale di
Chateaubriand
Nel salone del suo appartamento di rue du Mont Blanc, a Parigi, arredato secondo l’ultima moda greco-pompeiana, una giovane donna dal corpo slanciato, avvolto in una veste rosa e bianca, dal volto graziosissimo, dall’aria dolce e verginale, ballava per i suoi amici la famosa danza dello scialle, messa di moda da Madame Tallien, la procace Egeria del Direttorio. Gli intimi ammessi allo spettacolo si sentivano trasportare, a poco a poco, in un mondo di sogno; seguendo il ritmo molle della musica, la bianca figura avvolgeva e svolgeva attorno a sé le spire di una lunga sciarpa trasparente e, nel momento culminante di questa magica danza, i lunghi capelli castano chiari le si scioglievano di colpo attorno al corpo e tutto scompariva in un alitare di spume bianche e bionde.
Allora,
ansante, si arrestava e fuggiva nella sua camera, dove sdraiata su un divano e
coperta da una vestaglia rosa e bianca accoglieva arrossendo, tra il chiarore
discreto delle luci velate, le lodi dei suoi ammiratori.
Erano
gli anni, intorno al 1800, della fine del Direttorio e dei primi fasti
napoleonici del Consolato. La casa di rue du Mont Blanc, alla Chaussée d’Antin,
apparteneva all’anziano banchiere Récamier di Lione, e colei che danzava era la
sua giovanissima moglie, la Divine Juliette,
come già allora la chiamavano, che, per trenta anni, dominerà la storia
sentimentale dell’Europa. Si erano sposati a Lione nel 1793, l’anno terribile
dell’inizio del Terrore: Juliette aveva quindici anni, Jacques Récamier
quarantadue. Fu e restò un matrimonio in bianco. Jacques aveva amato sua madre,
Marie Bernard e vi è, perfino, chi ritiene che Juliette fosse sua figlia. Lui,
comunque, l’amava come tale, e, in quei momenti tremendi, vedendo le teste di
tanti amici rotolare, di giorno in giorno, nel paniere della ghigliottina e,
sentendosi minacciato da vicino, aveva pensato che un matrimonio fosse il mezzo
più sicuro per garantire alla figlia di Marie Bernard la sua ricca eredità.
Questo
strano legame, nato sotto il segno del provvisorio, doveva durare fin quasi
alle nozze d’oro. Il buon finanziere, che, nel 1893, si sentiva la morte in
tasca, vivrà fino a ottantuno anni, sereno e paternamente soddisfatto,
attraverso i molteplici fallimenti della sua banca e i mille successi della sua
Juliette, il candido giglio di Francia, che il mito dei contemporanei
proclamava la più civetta e la più irreprensibile delle donne. Lei non volle
mai rompere il suo matrimonio, neppure, quando, alle soglie dei quaranta anni,
venne a sconvolgere la sua leggendaria innocenza da colomba François-René
visconte di Chateaubriand, l’ardente scrittore.
Il
fascino di Madame Récamier consisteva in una bellezza non clamorosa, ma piena
di soavità e di candore. La figlia adottiva, che ne raccolse le Memorie,
ricorda la sua figura snella ed elegante, la bocca piccola e vermiglia, i denti
di perla, le braccia sottili, il naso delicato e molto francese, i riccioli
naturali dei capelli castani, lo splendore della carnagione, che rendeva
irresistibile quel volto tutto innocente malizia. Riceveva gli amici in veste
bianca, stretta in vita da una sciarpa di seta azzurra, e si ornava solo di
bianche perle. Tutto questo candore si intonava alla fama della sua purezza.
Alla donna più galante di Europa, amica gentile e pericolosamente pietosa dei
suoi innamorati, non si può attribuire con sicurezza alcun amante, almeno fino
ai trentotto anni e alla calata dello sparviero Chateaubriand.
“Angelo in molte cose, donna in qualcuna.”,
le
scriveva maliziosamente uno dei suoi più fidi amici, il piccolo e brutto
filosofo Ballanche, il suo caro Platone domestico, conosciuto, nel 1812,
durante l’esilio a Lione, che come tanti aveva iniziato amandola, e finiva
adorandola come una dea. Allo stesso modo erano finiti i due cugini duchi di
Montmorency, lo spiritoso Adrien, il severo e mistico Mathieu, che, dopo averla
vagheggiata ai tempi della danza dello scialle, la seguirono con la loro
tenerezza lungo tutta la vita. Anche prima del Platone domestico, aveva avuto
in Mathieu il suo Mentore brontolone, che la blandiva e la sgridava,
sorvegliava attento i suoi giochi più arrischiati con certi adoratori, si
adoperava a migliorarle l’anima.
E
adoratori pericolosi a Juliette non ne mancarono: dal suo coetaneo Paul David,
nipote del marito, che era venuto diciassettenne a lavorare nella banca di
Parigi, al fratello del Primo Console, Luciano Bonaparte, di professione
seduttore, che si era battezzato romanticamente il suo Romeo; da Prosper de
Barante, figlio de prefetto del Lemano e amante quasi segreto di Madame de
Staël, a Benjamin Constant, l’aspro polemista dal cuore indecifrabile, amante
in carica della stessa, fino dai tempi del Direttorio, che dedicherà una sua
improvvisa e furiosa passione a Juliette sotto la Restaurazione.
Angelo
in molte cose, Juliette si adoperò pazientemente, per tutta la vita, a
trasformare questi amori effimeri in durature amicizie: creatura infelice nella
sua incerta femminilità, dell’amicizia aveva un vero culto, e per essa era
disposta a correre qualunque rischio, da quello di ricevere nel suo salotto i
nemici più accaniti per tentare di conciliarli, a quello di farsi odiare ed
esiliare da Napoleone, lei che era appena appena una realista moderata, per
restare fedele al suo eterogeneo gruppo di amici realisti e
repubblicano-liberali.
Il
più grande di questi suoi pericolosi amici fu la baronessa de Staël. La
tempestosa valchiria delle lettere e futura Egeria di Chateaubriand si
conobbero nel tardo 1898, quando i Récamier acquistarono dal padre della
scrittrice, il famoso statista Necker, la casa della Chaussée d’Antin. Juliette
era ai primi successi mondani: la sua danza dello scialle emigrerà, pari pari,
in una scena del più celebre romanzo dell’amica, Corinna. Madame de Staël, maggiore di undici anni, da quattro amava
Constant e tra i due iniziavano le burrasche.
La
persecuzione di Napoleone contro la scrittrice liberale le obbligò presto a
lunghe separazioni, riempite dalle letterine affettuose e riservate di Madame Récamier,
da quelle passionali, quasi da innamorata, di Corinna, che apriva davanti alla
dolce amica le pieghe più riposte della sua anima.
Nel
1803, Madame de Staël fu esiliata, con la solita formula “a quaranta leghe da Parigi”, e si rifugiò prima in Germania, poi
al castello di Coppet, presso Ginevra. Nello stesso anno, venivano soppressi i
famosi lunedì di Madame Récamier, nei quali si incontravano troppi realisti,
come i Montmorency, troppi antibonapartisti, come il generale Bernadotte,
futuro re di Svezia, e perfino troppi Bonapartisti, come Murat ed Eugenio di
Beauharnais: tanto che un giorno Napoleone aveva gridato rabbioso:
“Ma da quando il consiglio si tiene da Madame Récamier?”
L’anno
dopo Bonaparte, proclamatosi imperatore, aumentava le sue intransigenze, e
Juliette le sue imprudenze: scriveva all’amica esiliata, riceveva Constant, correva
al processo del generale Moreau, coinvolto in un complotto, solo per fargli da
lontano un cenno di saluto.
Nel 1807, Récamier falliva e moriva anche la madre di Juliette.
Addio
salotto della Chaussée d’Antin, addio vita frivola e lieta: solo nel ‘14, con la Restaurazione,
vedremo Madame Récamier tornare alla gran ribalta della vita mondana. Ma dopo
il disastro gli amici le si strinsero attorno più fedeli che mai. Madame de Staël
la volle a Coppet, nell’estate. Juliette vi trovava un clima saturo di inquietudini
amorose, di complicazioni sentimentali: l’amica si disperava davanti alla
crescente freddezza di Constant, che l’anno dopo l’abbandonerà per sposarsi di
nascosto, si tormentava pensando al suo amore difficile per il giovanissimo
Prosper de Barante. Si passava il tempo rappresentando commedie inedite,
litigando, scambiandosi bigliettini ambigui nel gioco della piccola posta.
Juliette, ormai trentenne e conscia del vuoto della sua vita, si lasciò
trascinare dall’ambiente e si innamorò di Augusto di Prussia, il nipote del
grande Federico, che era ospite del castello. Doveva essere una cosa seria:
quando lui partì, Juliette gli giurò che avrebbe chiesto il divorzio per
sposarlo: Madame de Staël, sempre pronta a soffiare sulle passioni proprie e
altrui, la spingeva a ricominciare la vita: perfino il freddo Benjamin
proteggeva l’idillio.
Un
idillio in bianco, stile Récamier, molto probabilmente.
Vi
è da pensarlo, almeno, a vedere quanta importanza i due attribuissero al
divorzio, per realizzare le loro aspirazioni d’amore.
Ma,
partito il principe azzurro, venne l’ora delle resipiscenze.
Jacques
Récamier scriveva, non rifiutando il divorzio, ma rimpiangendo di avere, a suo
tempo, rispettato certe ripugnanze della moglie quindicenne, che avevano impedito
un’unione completa.
Poi,
tutto si aggiustò nel modo più saggio.
A
poco a poco, riuscì a staccare il suo principe azzurro, per rivederlo di tanto
in tanto, dopo molti anni, senza tremori.
Anche
il breve capitolo Coppet, dove Juliette trentenne si era comportata come una
ragazzina al primo amore, si chiudeva.
Presto,
sarà il capitolo dell’esilio, che la colpisce, nel 1811; poi, dopo la brillante
parentesi della Restaurazione, lo scenario finale della severa Abbaye-aux-Bois,
alle porte di Parigi, dove in seguito a un nuovo rovescio finanziario del
marito, Juliette si trasferì, nel 1819, al tempo dei suoi amori con
Chateaubriand. Qui la “Ninon de
Lanclos moderna, con in più la virtù”, come l’avevano battezzata
certi contemporanei maligni, si trasformò nella Beatrice, nell’Ange Fatal di Chateabriand.
L’aveva visto la prima volta di sfuggita, nel 1801-2, nel suo salotto e nel boudoir di Madame de Staël. Aveva risentito il suo nome, nel 1812, a Lione, durante l’esilio inflittole da Bonaparte per un’ennesima visita a Coppet. Dopo il viaggio in Italia, dove si era fatta amica del Canova e aveva rivisto a Napoli, ormai tentennanti nella loro fede napoleonica, i Murat, lo aveva ritrovato nel suo salotto parigino, riaperto, nel 1814, al rientro dei Borboni, in rue Basse-du-Rempart. Vi circolavano di nuovo i vecchi amici, i Montmorency, Madame de Staël, Canova, Constant e, in più, Metternich, e un corteggiatore di fresca data, il duca di Wellington, non ancora vittorioso a Waterloo. Chateaubriand, quarantaseienne, veniva a leggervi una sua novella inedita, Les Abencerages. Ma il loro amore non era ancora maturo.
Nel
1814-15 Juliette era occupatissima a rintuzzare l’improvvisa passione di
Benjamin Constant, l’antico amico di Madame de Staël, di cui ben conosceva l’intima
durezza. L’amore con François-René fu preceduto da un periodo di vaga amicizia.
Dapprima Juliette ne ammirò l’ingegno fervido di scrittore, poi, fu presa, a
poco a poco, dalla passionalità e dalla prepotenza di quella natura.
Per
stargli sempre più vicina, si fece, perfino, amica della moglie, l’arida e
intelligente viscontessa Céleste. Palpitò di simpatia ai suoi primi infortuni
politici, quando, nel 1816, per aver pubblicato La
Monarchie selon la Charte, Chateaubriand
si vide ritirare il titolo e la pensione di ministro di Stato. L’anno dopo era
in acque cattivissime, ridotto, perfino, a vendere la sua biblioteca. E fu
allora, in quel memorabile pranzo del maggio 1817, che riuniva per una delle
ultime volte gli amici attorno a Madame de Staël, ormai paralizzata, che, al
rapido scoccare di uno sguardo, François-René si accorse di Juliette come
donna. Di Juliette, che, probabilmente, già, in segreto, lo amava.
Il
nuovo destino di Madame Récamier si compiva sull’orlo della tomba della sua
grande amica. Un’altra figura, carica di indisciplinate passioni e di generose
imprudenze politiche e sentimentali, che aveva più di un punto in comune con
l’autrice di Corinne, veniva a sostituire al momento giusto l’amica moribonda,
che per venti anni aveva dato a Juliette un poco della sua grandezza, le aveva
preso un poco della sua dolcezza.
Madame
de Staël scompariva nel luglio dello stesso anno.
L’anno
dopo, nell’ottobre, al ritorno dalle acque di Aix-la-Chapelle, Madame Récamier
divenne tutta di Chateabriand.
Era stato per lei un anno e mezzo d’inferno: non voleva cedere, era tormentata da crisi nervose, confessava di aver perso completamente la testa. Gli amici, specie il severo Mentore brontolone, Montmorency, la rimproveravano e tentavano di scongiurare la tempesta. Ma la povera colomba trentottenne era stanca della sua eterna veste candida, anche se cercava disperatamente di salvare le apparenze della sua leggenda, di avvolgere tutto nel mistero.
Non
sappiamo, infatti, dove e quando François-René e Juiette si amarono.
Forse,
come ha supposto Levaillant, in una casa della Foresta di Chantilly, dove Madame
Récamier fece in quegli anni molte soste.
“Non dimenticate Chantilly.”,
le
scriveva l’amico.
E
lei più tardi, al tempo di certe sue avventure londinesi, gli rimproverava di
aver dimenticato Chantilly.
Chateaubriand,
infatti, non le fu fedele a lungo, specie quando, nel 1820, tornò in auge
politica, come ambasciatore e ministro di Stato. Juliette soffriva come una
donna qualunque, non trovava più le sue antiche armi di vergine civetta. Scelse
l’unica degna della sua natura schiva: nel tardo 1823, d’un tratto, scomparve
dall’Abbaye-aux-Bois, e partì per l’Italia, trascinandosi dietro la figlia
adottiva, il vecchio e fedele Ballanche, e il giovanissimo Jean Jacques Ampère,
figlio di un amico di Lione, futuro inventore dell’elettricità dinamica: un
nuovo spasimante da tormentare e deludere, alla maniera antica, pre-Chantilly.
Al
suo ritorno a Parigi, nel maggio del 1825, i due amanti si ritrovarono muti e
commossi: non una parola di rimprovero fu pronunciata. Deposti gli antichi
ardori, iniziava, per Juliette, quel ruolo di consolatrice, che si accentuò
dopo il 1830, quando, con la rivoluzione di luglio e il passaggio del trono dai
Borboni a Luigi Filippo d’Orléans, il legittimista Chateaubriand si ritirò
clamorosamente dalla vita politica, per dedicarsi tutto al completamento delle memorie,
pubblicate postume. Storia della sua vita, le Mémoires d’Outre-Tombe divennero, a poco a poco, un altare eretto
per la cara figura di Juliette, ormai nobilmente idealizzata. Non vi si
parlava, beninteso, della danza dello scialle né dei bigliettini galanti della
piccola posta di Coppet né di Chantilly. Juliette, che qualcuno tra il 1820 e
il 1830 osava ancora chiamare la
Circe dell’Abbaye-aux-Bois, alludendo al traffico di nomine e
portafogli del suo nuovo salotto, era consacrata ormai come Madonna
dell’Abbaye, come ange fatal della
sua epoca.
Lei
lo ripagava, organizzando un salotto dove tutto era previsto per gravitare
attorno alla gloria di François-René che vi andava leggendo i capitoli delle memorie.
In una nuova, severa pantomima, ben diversa da quella danzata della ventenne
Juliette alla Chaussée d’Antin, l’esile vecchia dai capelli bianchi
accompagnava gli ospiti ai posti rigorosamente fissati, in cerchi di sedie
geometrici, graduati in modo da creare a François-René un pubblico sempre
attento.
Così,
lavorando a erigersi un reciproco monumento di gloria, i due tramontavano.
Morirono a distanza di un anno, prima lui poi lei, tra il 1848 e il 1849, i due protagonisti della favola incredibile: quella del giglio di Francia, che aveva aspettato a sfiorire per trasformarsi in rosa: quella della colomba e dello sparviero, che finivano placati, come Filemone e Bauci.
Daniela Zini
Copyright © 11 novembre 2008 ADZ
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