IPAZIA
o
la memoria delle
donne
8 marzo 415: assassinio
di Ipazia
ὅταν βλέπω σε, προσκυνῶ, καὶ τους λόγους.
τῆς παρθένου τὸν οἶκον ἀστρῷον βλέπων
εἰς οὐρανὸν γάρ ἐστι σοῦ τὰ πράγματα,
Yπατία σεμνή, τῶν λόγων εὐμορφία,
ἄχραντον ἄστρον τῆς σοφῆς παιδεύσεως.
τῆς παρθένου τὸν οἶκον ἀστρῷον βλέπων
εἰς οὐρανὸν γάρ ἐστι σοῦ τὰ πράγματα,
Yπατία σεμνή, τῶν λόγων εὐμορφία,
ἄχραντον ἄστρον τῆς σοφῆς παιδεύσεως.
Quando ti vedo mi
prostro davanti a te e al tuo verbo,
Vedendo la casa astrale della Vergine,
Infatti, verso il cielo è rivolto ogni tuo atto
Ipazia sacra, bellezza del verbo,
Astro incontaminato della sapiente cultura.
Vedendo la casa astrale della Vergine,
Infatti, verso il cielo è rivolto ogni tuo atto
Ipazia sacra, bellezza del verbo,
Astro incontaminato della sapiente cultura.
Pallada, Antologia
Palatina, IX, 400
La data, in cui si è consumato, il
martirio di Ipazia è l’8 marzo 415 d.C., e l’8 marzo è una giornata che altre
morti innocenti hanno consacrato alle battaglie per la parità delle Donne e che,
forse, oggi, divenuta solo una vuota ricorrenza, dovrebbe riacquistare il
significato originario, meno ludico, ben più riflessivo.
Vi sono creature che mi fanno credere che l’anima
esista.
Il mio intervento di questa sera si incentra su Ipazia.
Perché Ipazia?
La sua vita, molto più della sua opera, mi dà il senso
della perfezione. Vi è qualcosa di più raro dell’abilità, del talento, dello
stesso genio: la nobiltà dell’anima. Se Ipazia non avesse scritto nulla, non
per questo la sua personalità sarebbe stata meno grande. Solo che molti di noi
non lo avrebbero saputo.
Il mondo è, così, fatto… le più rare virtù di un essere
debbono restare, sempre, il segreto di qualche altro.
Certi sogni teosofici, simili a quelle strane visioni,
ma benevole, che si hanno chiudendo gli occhi nel momento di addormentarsi,
vennero, forse, sul tramonto anche a consolarla. La vita terrena, che tanto
aveva amato, non era per lei se non il lato visibile della vita eterna. Senza
dubbio, accettò la morte, come una notte più profonda delle altre, cui doveva
seguire un più limpido mattino.
Vorrei credere che non si sia ingannata.
Vorrei credere che la dissoluzione della tomba non
arresti uno sviluppo così raro.
Vorrei credere che la morte, per questa anima, non sia
che un gradino superiore.
Vorrei dimenticare la mia saggezza e le mie ragioni,
non chiedere più niente, cessare ogni volere e accogliere, sorridendo, le rose
che la sua mano lascerà cadere sulle mie ginocchia.
Vorrei, lungi da ogni sforzo, non essere se non chi
riceve l’onda di infinito e inoltrarmi sulle strade fortuite, spinta dal solo
soffio delle voci interiori.
Questo risponde, spero,
alla domanda:
Ipazia è l’Eroina ideale.
Aveva carisma, morì
orribilmente, fu al centro di un gioco complicato di tensioni politiche e
religiose e – attestato più importante per lo status di Eroina – noi
sappiamo molto poco di lei, in modo chiaro e certo. Una stella che brilla,
certamente, ma vista attraverso le brume del tempo e dell’oblio. Le nostre
incertezze mi inducono a trarre dal nulla una donna sepolta da sedici secoli.
Alcuni esseri hanno un destino
esemplare, talvolta, tragico, che li pone al di sopra della condizione umana.
Le loro azioni, i loro ideali, le loro prese di posizione, simboleggiano,
allora, la assoluta superiorità del pensiero sul sedimento del quotidiano. Ipazia,
come scrive Blaise Pascal
(1623-1662), “ultimo fiore meraviglioso della gentilezza e della scienza ellenica”,
si situa nel Pantheon di queste
creature eccezionali.
Senza dubbio conoscete il suo nome e, almeno nelle grandi
linee, la sua storia: matematica e filosofa della fine del IV secolo, figlia di
Teone, donna pagana, che visse ad Alessandria, nel momento in cui l’impero
romano passava dalla tolleranza all’imposizione del Cristianesimo, insegnante
carismatica, devota ai pagani quanto ai cristiani, vittima di un assassinio
orribile.
Abbiamo, dunque, in
Ipazia, tutti gli elementi ideali per una storia avvincente: vi è il fatto
esotico, nell’antichità, di una donna matematica e filosofa; vi è il suo
carisma innegabile; vi è l’elemento erotico, fornito dalla sua bellezza e dalla
sua verginità; vi è il gioco imprevedibile delle forze politiche e religiose in
una città, che ha, sempre, conosciuto la violenza; vi è la crudeltà
straordinaria del suo assassinio e la nostra mancanza di informazioni chiare e
precise su di lei, che permette ai fabbricanti di leggende di riempire le
lacune, come vogliono. E, sullo sfondo, il sentimento profondo di un
cambiamento inesorabile di un’era storica.
Scartando tutto ciò che è solo involucro, apparenza,
superficie, vorrei giungere subito al cuore di questa rosa, al fondo di questo
dolce calice. Le rappresentazioni più stupefacenti non sostituiscono i morti,
non offrono se non un’immagine sbiadita. Ispirati alla realtà, i suoi ritratti
restano a lei inferiori, non sono che le ceneri di un fuoco meraviglioso. A
coloro che tutto ignorano di lei, io vorrei, questa sera, far sentire il soave
calore di queste ceneri.
Ho omesso di dire della grande bellezza di questa
donna, che ha attraversato i secoli da solitaria altera, a volte distante,
spesso benevola, e che ha saputo raggiungere una sorta di serenità, senza
lasciarsi mai conquistare dall’indifferenza, avida di preservarsi, fino alla
fine, dai piaceri della vita quotidiana, dalla sorveglianza intellettuale,
dagli stordimenti amorosi.
Era iniquo lasciare senza voce la creatura fin qui,
così dettagliatamente, descritta!
Per rivelare, sotto la
stratificazione degli interessi politici, ideologici e religiosi, la figura di Ipazia,
dovrò superare le brume allettanti di una leggenda costruita sul filo dei
secoli, leggenda alla quale razionalisti, romantici e positivisti hanno
apportato un contributo, sovente appassionato.
Da Voltaire (1694-1778),
che la consegna “vittima innocente di un Cristianesimo
nascente”, fanatico e predatore, a Charles Marie Lecomte de Lisle
(1818-1894), che riconosce in lei “l’alito di Platone e il corpo di Afrodite”,
passando attraverso le femministe contemporanee, che ne fecero l’archetipo
della donna abbattuta dalla società misogina, scomporrò, pazientemente, gli
enunciati dominanti, un pò riduttivi, per rivelare una realtà ben più
complessa.
Attenendomi
essenzialmente a quattro fonti:
-
l’Epistolario di Sinesio di Cirene (370-413),
-
la Storia ecclesiastica di Socrate lo scolastico
(380 ca.-440 ca.),
-
la Vita di Isidoro di Damascio il diadoco
(458 ca.-538),
-
la Cronaca di Giovanni di Nikiu,
ricomporrò,
scrupolosamente, il contesto politico-religioso, un po’ offuscato di questo IV
secolo, che associa, secondo l’espressione di Claude Lepelley, “una rottura radicale e una stupefacente
continuità”.
Nell’impero romano del IV
secolo il problema non viene dall’introduzione di una religione di Stato, che è
sempre esistita, a Roma, dove la nozione di separazione tra religione e Stato
non ha senso, ma dalla non-separazione della religione individuale dell’imperatore
con la religione di Stato e dalla necessità fatta al cittadino, per esistere
come parte beneficiaria di una società, di praticare la religione comune, anche
nella sfera privata. Poiché la religione ufficiale pagana è, in qualche sorta,
la messa in forma nell’ordine del cosmo del potere umano, parte dagli uomini
per raggiungere gli Dei e si limita, almeno in termini di potere, a una sfera
pubblica ristretta. Allorché il cristianesimo è sentito, al contrario, come la messa
in forma sulla terra del potere divino, partendo da Dio e rivelato agli uomini,
si afferma come verità unica, fonte del potere dell’imperatore e deve, a questo
titolo, essere universale. Là ove il paganesimo lotta contro i cristiani,
perché appaiono suscettibili di distruggere l’ordine sociale e il potere
politico con le loro idee, il cristianesimo vuole imporsi ai pagani, perché la
loro stessa esistenza in un impero cristianizzato sembra compromettere un
potere che viene da Dio, negando la fonte di questo potere. È il pericolo,
ancora attuale, mi sembra, di ogni governo legato a una religione monoteista,
la necessità ideologica di imporsi a tutti come sola via possibile e di legare
il suo modo di azione e di legislazione a un pensiero che, in quanto verità
rivelata, non può sopportare la contraddizione umana. Là, ove un governo laico
è una polifonia, un governo religioso non può ammettere che una sola voce o
suppone, almeno, un coro abbastanza forte per coprire le note dissonanti. Per
filare questa metafora musicale, dirò che il IV secolo è un periodo dove si
forma ufficialmente questo coro diretto da un capo cristiano, in cui tutti i
livelli di voce si uniscono per cantare, con sempre maggiore sicurezza, e le
divergenze finiscono o per fondersi nell’armonia generale o per essere
soffocate dal canto collettivo.
Il cristianesimo, che cessa di essere perseguitato con l’editto di
Costantino, nel 313, divenendo religione di Stato, con l’editto di Teodosio I,
nel 380, inizia, a sua volta, a perseguitare, nel 392, quando sono distrutti i
templi greci e bruciati i libri pagani.
“Nessuna bestia feroce”,
scrive Ammiano Marcellino
(330 ca.-391 ca.),
“è così accanita contro l’uomo quanto
lo sono la maggior parte dei cristiani gli uni contro gli altri.”
In ottanta anni, i
cristiani sono riusciti a impadronirsi del vertice dell’impero romano e si sono
trasformati in accaniti persecutori dei fedeli di quella religione, i cui
valori hanno dato vita alla grandezza di Roma e dell’impero.
Cinque
anni dopo il sacco di Roma (24 agosto 410), mentre l’impero crolla, l’Egitto
vive gli ultimi fuochi del paganesimo antico.
La città è sotto il giogo
di Cirillo di Alessandria (370-444), nipote del vescovo Teofilo (…-412), che è
divenuto vescovo, nel 412, alla morte dello zio, e lo resta per trentadue anni.
Uno Stato nello Stato.
Secondo lo storico
Socrate lo scolastico, Cirillo ha acquistato “molto più potere di quanto ne avesse avuto il suo predecessore”
e il suo episcopato va “oltre i limiti delle sue funzioni sacerdotali”.
Si passa sotto altri
cieli, dove regna un Dio geloso.
Come afferma Sant’Ambrogio
(339/340-397), vescovo di Milano, che tanto impressiona Sant’Agostino (354-430),
in questa fine del IV secolo:
“Reverentiam primo ecclesiae catholicae
deinde etiam et legibus.”
“Si deve il rispetto innanzitutto alla
Chiesa cattolica e, poi, solo alle leggi.”
Il mondo delle idee è
messo sotto tutela e il dogma si impone, trasformando la filosofia in serva
della religione.
Il mito divora il logos,
la favola la ragione.
La religione a piani che
caratterizzava il mondo antico – i miti, i culti civici e la mistica
intellettualizzata dei filosofi, una élite –, permetteva una economia
relativamente serena del problema divino.
I fedeli dell’antica
religione non hanno più né templi, né clero, né statue, né riti.
Rimane loro lo spazio
della scienza e della filosofia.
È l’inizio dell’antipaganesimo aggressivo che provocherà, più tardi,
l’incendio della grande biblioteca di Alessandria.
La libertà di
interpretazione, il libero gioco della ricerca intellettuale non avranno più
corso.
In
questa atmosfera tesa si erge Ipazia la vergine dei pagani e, se si crede a
Socrate lo scolastico e a Damascio il diadoco, l’ultimo bastione del
paganesimo.
Socrate scrive venti o
trenta anni dopo gli avvenimenti che riferisce e a una distanza di mille
chilometri dal luogo, ma vive nella capitale dell’impero e si può presumere che
abbia avuto facile accesso ai documenti della curia.
Narra:
“Vi era ad Alessandria una donna di
nome Ipazia. Era la figlia del filosofo Teone, che era pervenuta a un tale
grado di cultura da superare di gran lunga tutti i filosofi del suo tempo,
ricevere in eredità l’insegnamento della scuola platonica, derivante da
Plotino, dispensare ai suoi uditori i principi della filosofia. Da ogni luogo
accorrevano a lei quanti volevano ascoltare le sue lezioni. Confidando sulla
padronanza di sé e sulla facilità dei modi, che aveva acquisito, grazie alla
sua educazione, sovente appariva in pubblico davanti ai principali cittadini.
Né si sentiva mai confusa di trovarsi con uomini. Tutti gli uomini, tenendo in
gran conto la sua dignità e la sua virtù, la ammiravano moltissimo.
Fu vittima della gelosia del tempo.
Quando, infatti, iniziò a frequentare assiduamente Oreste, si sollevò contro di
lei, tra il popolo cristiano, una calunnia, secondo cui sarebbe stata proprio
lei a impedire una riconciliazione tra Oreste e il vescovo. In seguito a
questo, uomini fanatici, alla testa dei quali si trovava un certo Pietro il lettore,
ordirono un complotto contro di lei e la sorpresero mentre rientrava a casa. La
trassero fuori della sua lettiga e la portarono nella chiesa chiamata il
Caesareum e, qui, le strapparono le vesti di dosso e, poi, le lacerarono le
carni con tegole taglienti, finché non esalò l’ultimo respiro. Dopo averlo
smembrato, portarono il suo corpo in un luogo chiamato Cinarion e lo
bruciarono. Questo fatto non arrecò a Cirillo la minima condanna e neppure alla
Chiesa di Alessandria. Ed è certo che nulla è più lontano dallo spirito
cristiano che permettere che avvengano massacri, violenze e azioni di tale
genere. E ciò accadde nel quarto anno dell’episcopato di Cirillo, sotto il
decimo anno del consolato di Onorio e il sesto di Teodosio, nel mese di marzo,
durante la Quaresima.”
Ipazia è linciata e
bruciata, l’8 marzo 415.
Ed è uccisa, una seconda
volta, dagli storici cristiani, predominanti dal IV secolo, che finiscono per
cancellare le tracce, già limitate e indirette del suo insegnamento.
Lo studioso e scrittore
francese Lucien Polastron (1944) sostiene che, insieme alle spoglie della
filosofa, siano state bruciate tutte le sue opere: un Commento in tredici
volumi all’aritmetica di Diofanto, una edizione delle Tavole astronomiche
di Tolomeo e un Commento in otto
volumi alle coniche
di Apollonio di Pergamo, nel quale Ipazia aveva inserito il Corpus astronomicus, una raccolta, da lei compilata, di tavole astronomiche sui moti
celesti. Nel suo Libri al rogo Polastron scrive:
“Allo stesso modo Cirillo fa lapidare la
filosofa e algebrista Ipazia unica donna nella storia della matematica greca,
mentre stava rientrando da una conferenza tenuta al Museion. Ipazia era donna
di grande bellezza, ma virtuosa, a quanto si dice straordinariamente popolare e
non cristiana. Venne, quindi, spogliata dalla folla e trascinata in chiesa
davanti a Pietro il lettore; poi, tagliata a pezzi con gusci di ostrica e
gettata alle fiamme insieme a tutte le sue opere.”
Lucien Polastron, Libri al rogo
Oreste chiederà
un’inchiesta, che si risolverà con un nulla di fatto, ma i temuti parabolani,
che costituiscono, di fatto, una sorta di milizia privata del vescovo Cirillo,
verranno posti sotto l’autorità del prefetto, in seguito a una richiesta della
comunità di Alessandria. La vicenda si concluderà con l’ordinanza imperiale del
3 febbraio 418, con la quale i parabolani verranno, di nuovo, affidati al vescovo
di Alessandria, che, all’epoca, era ancora Cirillo.
Cirillo è proclamato
dottore della Chiesa, nel 1882, da papa Leone XIII. Nel 1944, papa Pio XII, per
i 1500 anni della morte di San Cirillo, promulga l’Enciclica Orientalis
Ecclesiae, per “esaltare con somme lodi” e “tributare venerazione a San Cirillo”. Il 3 ottobre 2007,
durante un’udienza generale, papa Benedetto XVI definisce San Cirillo “un instancabile e fermo testimone”
di Gesù Cristo, senza una parola per l’intolleranza brutale, ripetuta e, oserei
dire, omicida di questo brillante dignitario della Chiesa. Questa affermazione
ci riporta al famoso discorso di Ratisbona del 12 settembre 2006, nel quale il
Papa sferra un duro attacco all’islam, e al non meno famoso discorso, a Parigi,
tra le splendide mura medievali del Collège des
Bernardins, il 12 settembre 2008, ad appena un isolato dalla Sorbonne.
Dopo l’uccisione di Ipazia,
che sembra stranamente un’esecuzione in piena regola, i suoi allievi, inquieti,
abbandonano la città, si esiliano e partono per la Persia o per l’India. E,
così, Alessandria, la “Perla del Mediterraneo”, cessa rapidamente di essere il
centro, unanimemente riconosciuto, dell’insegnamento della filosofia e della
scienza, lasciando progressivamente il posto a città e a civiltà più
accoglienti, più aperte all’immaginazione creatrice e al rigore intellettuale,
quali la civiltà bizantina, indiana e cinese.
È il filosofo
neoplatonico Damascio il diadoco, quinto successore di Proclo nello scolarcato
dell’Accademia di Atene, che per primo, nella Vita di Isidoro, scritta
cento anni dopo i fatti, accusa Cirillo del delitto.
“Ipazia nacque ad Alessandria dove fu
allevata e istruita. Poiché aveva più intelligenza del padre, non fu
soddisfatta dalla sua conoscenza della matematica e volle dedicarsi anche allo
studio della filosofia.
La donna era solita indossare il
mantello del filosofo e andare nel centro della città. Commentava pubblicamente
Platone, Aristotele o i lavori di qualche altro filosofo per chiunque
desiderasse ascoltarla. Oltre alla sua esperienza nell’insegnare riuscì a
elevarsi al vertice della virtù civica.
Fu giusta e casta e rimase sempre
vergine. Lei era così bella e ben fatta che uno dei suoi studenti si innamorò
di lei, non fu capace di controllarsi e le mostrò apertamente la sua
infatuazione. Alcuni narrano che Ipazia lo avesse guarito dalla sua afflizione
con l’aiuto della musica. Ma la storia della musica è inventata. In realtà, lei
raffazzonò alcuni stracci, macchiati durante il suo ciclo, e glieli mostrò come
segno del suo sporco decadimento e disse:
“Questo è ciò che tu ami, ragazzo, e
non è bello!”
A quella vista ripugnante fu così preso
da vergogna e da stupore da mutare animo e divenire un uomo migliore.
Tale era Ipazia, così raffinata ed
eloquente nel parlare come prudente e civile negli atti. La città intera la amò
e la adorò in modo singolare, ma i potenti della città erano invidiosi di lei,
cosa che è, sovente, accaduta anche ad Atene. Anche se la filosofa è morta, il
suo nome sembra ancora magnifico e venerabile agli uomini che esercitano il
potere nello Stato.
Così accadde che un giorno Cirillo, vescovo
della setta di opposizione, passasse nei pressi della casa di Ipazia e vedesse
una moltitudine di persone e di cavalli dinanzi alla sua porta. Alcuni arrivavano,
alcuni se ne andavano, altri indugiavano. Quando chiese perché vi fosse una
tale ressa e quale fosse il motivo di tutto quel clamore, gli fu risposto dai
seguaci della donna che era la casa di Ipazia la filosofa e che questa si
apprestava a salutarli. Quando Cirillo lo seppe fu così preso da invidia che
iniziò, immediatamente, a progettarne l’assassinio e nella forma più atroce che
potesse immaginare.
Quando Ipazia uscì di casa, secondo il
suo costume, una folla di uomini spietati e inferociti che non temevano né la
punizione divina né la vendetta umana la aggredì e la fece a pezzi, commettendo
così un atto oltraggioso e disonorevole contro il proprio Paese di origine.
L’imperatore si adirò e l’avrebbe
vendicata se non fosse stato subornato da Edesio. Così l’imperatore ritirò la
punizione sopra la sua testa e la sua famiglia, attraverso i suoi discendenti,
ne pagò il prezzo. La memoria di questi eventi è, ancora, vivida tra gli
alessandrini.”
La bellezza di Ipazia soggiogò i
suoi contemporanei e la sua fama si accrebbe al ritmo delle dimostrazioni
eloquenti delle sue capacità di analizzare e insegnare. Ma, della bella e affascinante
Ipazia, che è vissuta al tempo dell'imperatore d'oriente Arcadio (377-408) e di
suo figlio Teodosio II (401-450), non ci è dato sapere, con precisione, il
genetliaco, cosa che rende, indiscutibilmente, più enigmatica tutta la leggenda
o storia o racconto, che evolve tra una linea di verità e molte incertezze. Si
può stabilire una cronologia storica oscillante tra il 350 e il 370. In questo arco di
tempo, dunque, dovrebbe aver fatto la sua comparsa terrena la rara ed
eccellente creatura il cui nome risuona come Ipazia di Alessandria.
Ipazia riceve una educazione
brillante, di cui fa il migliore uso, come ci tramanda suo padre Teone. Nell’intestazione
del suo Commento al terzo libro dell’Almagesto di Tolomeo, troviamo
scritto:
“Commento di Teone di Alessandria al
terzo libro del sistema matematico di Tolomeo. Edizione controllata dalla
filosofa Ipazia, mia figlia.”
Di Ipazia non ci è
pervenuto alcuno scritto, ma possiamo spigolare qualche aneddoto e
dettaglio illuminante della sua vita dall’Epistolario di Sinesio di
Cirene (370-413), il più noto dei suoi allievi. Le centocinquantasette Lettere
ci permettono, infatti, di analizzare la spiritualità profonda del piccolo
cenacolo neoplatonico, che evoca, irresistibilmente, un testo di San Clemente
di Alessandria, filosofo cristiano del II secolo:
“Quando io parlo di
filosofia, non mi riferisco alla filosofia stoica, né alla filosofia platonica
o epicurea o aristotelica, ma a tutto quello che è stato detto di bello in
ciascuna di queste scuole, attraverso l’insegnamento della giustizia
accompagnato dalla pia scienza. È tutto questo insieme scelto, che io chiamo
filosofia.”
San Clemente di
Alessandria (150 ca.-215 ca.), Stromata I, 7, 37.
Le Lettere di
Sinesio ci permettono, altresì, di identificare gli allievi e di determinarne i
legami di parentela, le origini sociali e geografiche e le importanti funzioni
ecclesiastiche o imperiali, che molti di loro sarebbero stati chiamati a
occupare. Ercoliano e suo fratello Ciro di Panopoli, futuro vescovo di Kotyaion
in Frigia; Olimpio, grande proprietario terriero della regione di Seleucia di
Pieria, Esichio, Euoptio, fratello di Sinesio, Atanasio, Teodosio e ancora Gaio,
Teocteno, Auxentio, e Alessandro – la gioventù dorata di Alessandria, di
Costantinopoli, della Cirenaica, dell’Alto Egitto, della Siria, i futuri quadri
dell’impero d’oriente – .
Pagano per nascita,
Sinesio, nativo della città di Cirene e figlio di una famiglia di proprietari
terrieri, diviene, nel 410, vescovo di Tolemaide, l’odierna Tolmeita, in Libia,
officio che accetta di malavoglia e non senza una lunga esitazione. È un
periodo difficile per il suo paese, poiché tutta la regione della Libia
inferiore è invasa da tribù berbere. Ogni ipotesi su Ipazia deve accordarsi con
i testi di questo uomo che la conosceva bene e che la lodava per la sua grazia
naturale, la sua disponibilità di spirito e la sua gentilezza. Sfortunatamente,
Sinesio muore, nel 313, due anni prima del suo assassinio e, dunque, il nostro
testimone più importante e più diretto non ha niente da dire sul momento più
sconcertante di questa vita: quello della sua morte.
Resta fedele a Ipazia.
Le scrive:
“Credimi, io ti considero, insieme alla
virtù, l’unico bene che non mi si possa togliere.”
Sinesio, Lettera LXXXI
E ancora:
“Quand’anche nessun ricordo restasse ai
morti negli inferi, anche là io mi ricorderei ancora della mia cara Ipazia; perché
io me ne ricordo qui, in mezzo alle miserie della mia patria, schiacciato dalla
vista dei disgraziati che soccombono e respirando il fetore dei cadaveri
ammonticchiati, nell’attesa di dividere la loro sorte. (Perché chi vi è ancora
che possa sperare, se l’aria stessa ci è nemica e oscurata dagli uccelli rapaci
che anelano le carogne?) Eppure a questa mia terra sono inchiodato. E come non
esserlo, se sono libico e di qui sono i miei avi, di cui vedo le inclite tombe?
- Per te sola, credo, dimenticherei la mia patria e, se mai potrò lasciarla,
non sarà che per ricongiungermi a te.”
Sinesio, Lettera C XXIV
Nell’ultima Lettera
(413), sul letto di morte, ormai, vinto dalla malattia, la chiama madre,
sorella, maestra:
“È dal letto nel quale giaccio che
detto questa lettera. Possa tu riceverla stando in buona salute, o madre,
sorella e maestra, tu che sei la mia benefattrice e meriti da parte mia ogni
titolo onorifico! I dispiaceri hanno causato la mia malattia. Il pensiero dei
miei figli morti mi colma di dolore. Sinesio avrebbe dovuto prolungare la propria
esistenza fino al giorno in cui ha
conosciuto l’afflizione. Come un torrente, a lungo contenuto, la sventura si è
abbattuta su di me, di colpo; la mia felicità è svanita. Piaccia a Dio che io
cessi di vivere o di ricordare la perdita dei miei figli! Abbi cura di te e
saluta da parte mia i tuoi felici compagni,
il venerabile Teocteno, innanzitutto, e il mio caro Atanasio, poi, tutti gli
altri. Se il loro numero si è accresciuto di qualche nuovo venuto, che merita
il tuo affetto, io devo essergli grato di meritarlo: è mio amico; riceva anche
lui i miei saluti. Mi porti ancora qualche interesse? Te ne sono riconoscente,
mi hai dimenticato? Io, nondimeno, non ti dimenticherò.”
Sinesio, Lettera CLVII
I lavori di Ipazia ci
sono noti attraverso sette lettere la 10, la 15, la 16, la 33 (frammento), la 81,
la 124 e la 154.
Dal IV
al XVIII secolo, il cristianesimo è ridotto al rango di religione di Stato. Si
addice che tutti gli abitanti di un territorio aderiscano alla stessa
confessione, tengano per indiscussi pretesi dogmi e si conformino ai riti in
vigore: la sanzione dei dissidenti è il rogo.
Si
deve rendere tutto a Dio, che trasmette tutto a Cesare.
Gesù
di Nazareth, crocifisso in nome della legge romana, nel 30, diviene la cauzione
di tutti i poteri, a partire dal 315.
È il
Dio dei potenti, il più insidioso di tutti i travestimenti del cristianesimo,
la sua perversione radicale. Quella che ha condotto alle guerre di religione,
dal XVI al XVII secolo, alla revoca dell’editto di Nantes, alla Shoah e anche
alla diffidenza attuale nei confronti dei musulmani, che hanno sostituito gli
ebrei come capri espiatori.
Nel
VII secolo, Giovanni, vescovo di Nikiu (Nicea), nella sua Cronaca,
a differenza dei due testi, precedentemente, citati, dà dell’assassinio di
Ipazia una feroce giustificazione:
“A quei tempi apparve una donna
filosofa, una pagana di nome Ipazia, che si dedicava completamente alla magia,
agli astrolabi e agli strumenti musicali e che stregava molte persone con le
sue arti demoniache. E il governatore della città la onorava eccessivamente,
perché lei, in effetti, lo aveva stregato con la sua magia. Questi cessò di
andare in chiesa, come sua abitudine. A eccezione di una volta, in circostanze
pericolose. E non solo fece questo, ma attrasse molti credenti a lei e lui
stesso ricevette gli increduli nella sua casa.
Un giorno, in cui stavano facendo,
allegramente, uno spettacolo teatrale con ballerini, il governatore della città
pubblicò un editto riguardante gli spettacoli pubblici nella città di
Alessandria. Tutti gli abitanti della città erano riuniti nel teatro.
Cirillo, che era stato nominato
patriarca dopo Teofilo, era ansioso di apprendere esattamente il contenuto
dell'editto.
Vi era un uomo chiamato Ierace, un
cristiano che possedeva comprensione e intelligenza e che era solito dileggiare
i pagani. Era un seguace affezionato all’illustre padre, il patriarca, e
obbediente ai suoi consigli. Questi era anche molto versato nella fede
cristiana.
Ora, questo uomo si era recato al
teatro per conoscere i termini dell’editto. Ma quando gli ebrei lo videro nel
teatro gridarono e dissero:
“Questo uomo non è venuto con buone
intenzioni, ma solo per creare disordine.”
Il prefetto Oreste fu scontento dei
figli della Santa Chiesa, e Ierace fu afferrato e sottoposto, pubblicamente, a
punizione nel teatro, sebbene fosse, assolutamente, senza colpa alcuna.
Cirillo si irritò con il governatore
della città per questo fatto, e anche perché aveva messo a morte Ammonio, un
illustre monaco del convento di Pernodj, e altri monaci.
Quando il magistrato principale della
città venne informato, si rivolse agli ebrei così:
“Cessate le ostilità contro i
cristiani.”
Ma si rifiutarono di dare ascolto a
quello che avevano sentito; si vantarono dell’appoggio del prefetto che era
dalla loro parte, e così aggiunsero oltraggio a oltraggio e progettarono un
massacro in modo infido.
Di notte posero in tutte le strade
della città alcuni uomini, mentre altri gridavano e dicevano:
“La chiesa dell'apostolico Atanasio è
in fiamme: corrano al soccorso tutti i cristiani.”
E i cristiani, udendo quelle grida, uscirono fuori del tutto
ignari della slealtà degli ebrei. Quando i cristiani si fecero avanti, gli
ebrei sorsero e, perfidamente, massacrarono i cristiani e versarono il sangue
di molti, sebbene fossero senza colpa alcuna.
Al mattino, quando i cristiani
sopravvissuti sentirono del malvagio atto compiuto dagli ebrei contro di loro,
si recarono dal patriarca. E i cristiani radunarono tutti. Marciarono in
collera verso le sinagoghe degli ebrei e ne presero possesso, le purificarono e
le convertirono in chiese. Una di esse venne dedicata a San Giorgio.
Espulsero gli assassini ebrei dalla
città. Saccheggiarono tutte le loro proprietà e li derubarono completamente. Il
prefetto Oreste non fu in grado di portare loro alcuno aiuto.
Poi, molti credenti si raccolsero
guidati da Pietro il magistrato – il quale era, sotto tutti gli aspetti, un
perfetto credente di Gesù Cristo – e si accinsero a cercare quella donna pagana
che aveva stregato il popolo della città e il prefetto con i suoi sortilegi. E,
quando appresero dove fosse, la trovarono seduta e avendola strappata dalla sua
lettiga, la trascinarono fino alla grande chiesa chiamata Caesareum. Si era nel
giorno del digiuno. Le strapparono le vesti e la trascinarono nelle strade
della città, finché morì. La trasportarono in un luogo chiamato Cinarion dove
bruciarono il suo corpo. E tutte le persone intorno al patriarca Cirillo lo
chiamarono “il nuovo Teofilo”, poiché aveva distrutto gli ultimi fasti
dell’idolatria nella città.”
Così si chiude la storia
di Ipazia la filosofa, che sarebbe caduta nell’oblio se un autore inglese del
XVIII secolo, Edward Gibbon (1737-1794), che effettuava ricerche
in Vaticano sulla decadenza dell’impero romano, non ne avesse trovato traccia
nella Storia ecclesiastica di Socrate
lo scolastico.
Così è trascorsa questa
vita platonica.
I secoli passano e si
consuma il mondo, ma la sua anima è sempre giovane; veglia tra le stelle, nella
notte dei tempi.
Come scrive,
magnificamente, Charles Marie Lecomte de Lisle, nei suoi Poèmes antiques
(Poemi antichi), quando evoca la vita di Ipazia e il suo
tragico destino:
Elle seule survit,
immuable, éternelle.
La mort peut disperser les univers tremblants,
Mais la Beauté flamboie, et tout renaît en elle,
Et les mondes encor roulent sous ses pieds blancs!
La mort peut disperser les univers tremblants,
Mais la Beauté flamboie, et tout renaît en elle,
Et les mondes encor roulent sous ses pieds blancs!
Ella sola sopravvive, immutabile,
eterna.
La morte può disperdere gli universi vacillanti,
Ma la Bellezza risplende, e tutto rinasce in lei,
E i mondi ancora ruotano sotto i suoi bianchi piedi!
La morte può disperdere gli universi vacillanti,
Ma la Bellezza risplende, e tutto rinasce in lei,
E i mondi ancora ruotano sotto i suoi bianchi piedi!
Ipazia è entrata nella
storia per la sua erudizione, per la sua bellezza e per la sua castità, ma
soprattutto per la sua fine drammatica che ha fatto di lei una icona del libero
pensiero, vittima delle forze oscurantiste. Liberiamoci, di fronte a questa
donna eccezionale, delle forme in cui viene racchiuso Dio. Più ci eleviamo, più
dominiamo le nostre credenze. Poco importa ciò che si crede, tutto dipende dal
modo in cui si crede.
Ammoniva il riformatore
Sébastien Castellion, discepolo di Jean Calvin, divenuto suo avversario dopo l’Affaire
Servet:
“Uccidere un uomo, non è difendere una
idea, è uccidere un uomo.”
Se Ipazia fosse stata
uomo, l’avrebbero solamente uccisa. Essendo donna, dovevano farla a pezzi, in
una cattedrale cristiana, per rendere quel massacro simbolico di un sacrificio.
Per escludere, nel cammino dei secoli a venire, metà del genere umano.
Ogni paese può rivelarsi una
nuova Alessandria.
Quando una cultura
dominante, utilizzata da una istituzione o da un potere, serve una verità
prestabilita, il rischio è di mantenere sotto il moggio episodi come il
linciaggio di Ipazia, i mille e uno “misfatti”, commessi sotto il mantello
delle verità ufficiali.
La storia non fa sovente
allusione alle donne di scienza.
La storia non accorda alle donne che un posto minimo,
anche quando hanno svolto un ruolo di primo piano.
E, tuttavia, sono le Dee,
sapienti, delle civiltà antiche quali Iside o Atena che, secondo i miti, hanno
trasmesso agli uomini l’arte di navigare, di costruire navi…
Nel suo libro Hypatia of Alexandria,
mathematician and martyr (Ipazia di Alessandria, matematica e martire), Michael Deakin scrive:
“Quasi da sola, praticamente l’ultima
accademica, si affermò per i valori intellettuali, per la matematica rigorosa,
il neoplatonismo ascetico, il ruolo cruciale della mente, la voce della
temperanza e la moderazione nella vita civile.”
Tutte le donne
martirizzate e disprezzate non sono tutte matematiche.
Non sono tutte filosofe o
astronome di talento.
Non somigliano tutte alla
“sublime” Ipazia di Alessandria che coniugava bellezza, generosità e
intelligenza.
Ma sono tutte sue sorelle
minori:
-
Anastassia Baburova,
-
Anna Frank,
-
Anna Kuliscioff,
-
Anna Politkovskaja,
-
Artemisia Gentileschi,
-
Aung San Suu Kyi,
-
Carla Capponi,
-
Diane Fossey,
-
Edith Stein,
-
Emily Davison,
-
Fania Fénelon,
-
Gina Galeotti Bianchi,
-
Giovanna d’Arco,
-
Ilaria Alpi,
-
Irina Khalip,
-
Indira Gandhi,
-
Liliana Segre,
-
Mafalda di Savoia,
-
Malalai Kakar,
-
Marisa Musu,
-
Meena Keshvar Kamal,
-
Milena Jesenská-Polak,
-
Nadia Anjuman,
-
Narges Mohammadi,
-
Nasrin Sotoudeh,
-
Natalya Estemirova,
-
Neda Aqa Soltan,
-
Oksana Chelyscheva,
-
Olympe de Gouges,
-
Rigoberta Menchú,
-
Rosa Luxemburg,
-
Shadi Sadr,
-
Shirin Ebadi,
-
Simone Veil,
-
Soheila Ghadiri,
-
Tahereh Qurratu’l-Ayn,
-
Tahmineh Mousavi,
-
Taisija Osipova
-
Uma Singh,
-
Zahra Rahnavard,
-
Zarema Sadulayeva,
e le milioni di donne
senza nome che vengono picchiate, aggredite, stuprate, mutilate, assassinate,
in qualche modo, private del diritto dell’esistenza stessa, per il fatto di
essere donne.
Ipazia ci insegna che la
via della ragione – la via dell’esperienza personale non mediata da altri, la
ricerca continua della verità sulla nostra vita, verità che racchiude corpo,
mente, universo – è la via cui ogni essere umano ha diritto.
Una verità che, come
sapeva Ipazia, si può raggiungere solo e sempre parzialmente nel tempo e nello
spazio.
Totus sed non totaliter!
Ipazia resta, molto
stranamente, nostra contemporanea, nostra amica.
Avvolta nel suo tribon,
cammina con noi.
Queste poche pagine hanno l’ambizione di riporre Ipazia
nel suo contesto sociale, politico e culturale e rompere il non-detto che ha,
lungamente, regnato sulle donne.
Grazie per averle condivise con me!
Relazione
di Daniela Zini
Conferenza-dibattito:
Forugh
Farrokhzad: una, nessuna, centomila
Odradek
la Libreria,
7 marzo 2011 ore 17.30