sabato 28 maggio 2011

JULIETTE RECAMIER l’Angelo Fatale di Chateaubriand di Daniela Zini

Juliette RECAMIER
[4 dicembre 1777 – 11 maggio 1849]
l’Angelo Fatale di Chateaubriand

 Nel salone del suo appartamento di rue du Mont Blanc, a Parigi, arredato secondo l’ultima moda greco-pompeiana, una giovane donna dal corpo slanciato, avvolto in una veste rosa e bianca, dal volto graziosissimo, dall’aria dolce e verginale, ballava per i suoi amici la famosa danza dello scialle, messa di moda da Madame Tallien, la procace Egeria del Direttorio. Gli intimi ammessi allo spettacolo si sentivano trasportare, a poco a poco, in un mondo di sogno; seguendo il ritmo molle della musica, la bianca figura avvolgeva e svolgeva attorno a sé le spire di una lunga sciarpa trasparente e, nel momento culminante di questa magica danza, i lunghi capelli castano chiari le si scioglievano di colpo attorno al corpo e tutto scompariva in un alitare di spume bianche e bionde.
Allora, ansante, si arrestava e fuggiva nella sua camera, dove sdraiata su un divano e coperta da una vestaglia rosa e bianca accoglieva arrossendo, tra il chiarore discreto delle luci velate, le lodi dei suoi ammiratori.
Erano gli anni, intorno al 1800, della fine del Direttorio e dei primi fasti napoleonici del Consolato. La casa di rue du Mont Blanc, alla Chaussée d’Antin, apparteneva all’anziano banchiere Récamier di Lione, e colei che danzava era la sua giovanissima moglie, la Divine Juliette, come già allora la chiamavano, che, per trenta anni, dominerà la storia sentimentale dell’Europa. Si erano sposati a Lione nel 1793, l’anno terribile dell’inizio del Terrore: Juliette aveva quindici anni, Jacques Récamier quarantadue. Fu e restò un matrimonio in bianco. Jacques aveva amato sua madre, Marie Bernard e vi è, perfino, chi ritiene che Juliette fosse sua figlia. Lui, comunque, l’amava come tale, e, in quei momenti tremendi, vedendo le teste di tanti amici rotolare, di giorno in giorno, nel paniere della ghigliottina e, sentendosi minacciato da vicino, aveva pensato che un matrimonio fosse il mezzo più sicuro per garantire alla figlia di Marie Bernard la sua ricca eredità.
Questo strano legame, nato sotto il segno del provvisorio, doveva durare fin quasi alle nozze d’oro. Il buon finanziere, che, nel 1893, si sentiva la morte in tasca, vivrà fino a ottantuno anni, sereno e paternamente soddisfatto, attraverso i molteplici fallimenti della sua banca e i mille successi della sua Juliette, il candido giglio di Francia, che il mito dei contemporanei proclamava la più civetta e la più irreprensibile delle donne. Lei non volle mai rompere il suo matrimonio, neppure, quando, alle soglie dei quaranta anni, venne a sconvolgere la sua leggendaria innocenza da colomba François-René visconte di Chateaubriand, l’ardente scrittore.
Il fascino di Madame Récamier consisteva in una bellezza non clamorosa, ma piena di soavità e di candore. La figlia adottiva, che ne raccolse le Memorie, ricorda la sua figura snella ed elegante, la bocca piccola e vermiglia, i denti di perla, le braccia sottili, il naso delicato e molto francese, i riccioli naturali dei capelli castani, lo splendore della carnagione, che rendeva irresistibile quel volto tutto innocente malizia. Riceveva gli amici in veste bianca, stretta in vita da una sciarpa di seta azzurra, e si ornava solo di bianche perle. Tutto questo candore si intonava alla fama della sua purezza. Alla donna più galante di Europa, amica gentile e pericolosamente pietosa dei suoi innamorati, non si può attribuire con sicurezza alcun amante, almeno fino ai trentotto anni e alla calata dello sparviero Chateaubriand.
Angelo in molte cose, donna in qualcuna.”,
le scriveva maliziosamente uno dei suoi più fidi amici, il piccolo e brutto filosofo Ballanche, il suo caro Platone domestico, conosciuto, nel 1812, durante l’esilio a Lione, che come tanti aveva iniziato amandola, e finiva adorandola come una dea. Allo stesso modo erano finiti i due cugini duchi di Montmorency, lo spiritoso Adrien, il severo e mistico Mathieu, che, dopo averla vagheggiata ai tempi della danza dello scialle, la seguirono con la loro tenerezza lungo tutta la vita. Anche prima del Platone domestico, aveva avuto in Mathieu il suo Mentore brontolone, che la blandiva e la sgridava, sorvegliava attento i suoi giochi più arrischiati con certi adoratori, si adoperava a migliorarle l’anima.
E adoratori pericolosi a Juliette non ne mancarono: dal suo coetaneo Paul David, nipote del marito, che era venuto diciassettenne a lavorare nella banca di Parigi, al fratello del Primo Console, Luciano Bonaparte, di professione seduttore, che si era battezzato romanticamente il suo Romeo; da Prosper de Barante, figlio de prefetto del Lemano e amante quasi segreto di Madame de Staël, a Benjamin Constant, l’aspro polemista dal cuore indecifrabile, amante in carica della stessa, fino dai tempi del Direttorio, che dedicherà una sua improvvisa e furiosa passione a Juliette sotto la Restaurazione.
Angelo in molte cose, Juliette si adoperò pazientemente, per tutta la vita, a trasformare questi amori effimeri in durature amicizie: creatura infelice nella sua incerta femminilità, dell’amicizia aveva un vero culto, e per essa era disposta a correre qualunque rischio, da quello di ricevere nel suo salotto i nemici più accaniti per tentare di conciliarli, a quello di farsi odiare ed esiliare da Napoleone, lei che era appena appena una realista moderata, per restare fedele al suo eterogeneo gruppo di amici realisti e repubblicano-liberali.
Il più grande di questi suoi pericolosi amici fu la baronessa de Staël. La tempestosa valchiria delle lettere e futura Egeria di Chateaubriand si conobbero nel tardo 1898, quando i Récamier acquistarono dal padre della scrittrice, il famoso statista Necker, la casa della Chaussée d’Antin. Juliette era ai primi successi mondani: la sua danza dello scialle emigrerà, pari pari, in una scena del più celebre romanzo dell’amica, Corinna. Madame de Staël, maggiore di undici anni, da quattro amava Constant e tra i due iniziavano le burrasche.
La persecuzione di Napoleone contro la scrittrice liberale le obbligò presto a lunghe separazioni, riempite dalle letterine affettuose e riservate di Madame Récamier, da quelle passionali, quasi da innamorata, di Corinna, che apriva davanti alla dolce amica le pieghe più riposte della sua anima.
Nel 1803, Madame de Staël fu esiliata, con la solita formula “a quaranta leghe da Parigi”, e si rifugiò prima in Germania, poi al castello di Coppet, presso Ginevra. Nello stesso anno, venivano soppressi i famosi lunedì di Madame Récamier, nei quali si incontravano troppi realisti, come i Montmorency, troppi antibonapartisti, come il generale Bernadotte, futuro re di Svezia, e perfino troppi Bonapartisti, come Murat ed Eugenio di Beauharnais: tanto che un giorno Napoleone aveva gridato rabbioso:
“Ma da quando il consiglio si tiene da Madame Récamier?”
L’anno dopo Bonaparte, proclamatosi imperatore, aumentava le sue intransigenze, e Juliette le sue imprudenze: scriveva all’amica esiliata, riceveva Constant, correva al processo del generale Moreau, coinvolto in un complotto, solo per fargli da lontano un cenno di saluto. 
 

Nel 1807, Récamier falliva e moriva anche la madre di Juliette.
Addio salotto della Chaussée d’Antin, addio vita frivola e lieta: solo nel ‘14, con la Restaurazione, vedremo Madame Récamier tornare alla gran ribalta della vita mondana. Ma dopo il disastro gli amici le si strinsero attorno più fedeli che mai. Madame de Staël la volle a Coppet, nell’estate. Juliette vi trovava un clima saturo di inquietudini amorose, di complicazioni sentimentali: l’amica si disperava davanti alla crescente freddezza di Constant, che l’anno dopo l’abbandonerà per sposarsi di nascosto, si tormentava pensando al suo amore difficile per il giovanissimo Prosper de Barante. Si passava il tempo rappresentando commedie inedite, litigando, scambiandosi bigliettini ambigui nel gioco della piccola posta. Juliette, ormai trentenne e conscia del vuoto della sua vita, si lasciò trascinare dall’ambiente e si innamorò di Augusto di Prussia, il nipote del grande Federico, che era ospite del castello. Doveva essere una cosa seria: quando lui partì, Juliette gli giurò che avrebbe chiesto il divorzio per sposarlo: Madame de Staël, sempre pronta a soffiare sulle passioni proprie e altrui, la spingeva a ricominciare la vita: perfino il freddo Benjamin proteggeva l’idillio.  
Un idillio in bianco, stile Récamier, molto probabilmente.
Vi è da pensarlo, almeno, a vedere quanta importanza i due attribuissero al divorzio, per realizzare le loro aspirazioni d’amore.
Ma, partito il principe azzurro, venne l’ora delle resipiscenze.
Jacques Récamier scriveva, non rifiutando il divorzio, ma rimpiangendo di avere, a suo tempo, rispettato certe ripugnanze della moglie quindicenne, che avevano impedito un’unione completa.
Poi, tutto si aggiustò nel modo più saggio.
A poco a poco, riuscì a staccare il suo principe azzurro, per rivederlo di tanto in tanto, dopo molti anni, senza tremori.
Anche il breve capitolo Coppet, dove Juliette trentenne si era comportata come una ragazzina al primo amore, si chiudeva.
Presto, sarà il capitolo dell’esilio, che la colpisce, nel 1811; poi, dopo la brillante parentesi della Restaurazione, lo scenario finale della severa Abbaye-aux-Bois, alle porte di Parigi, dove in seguito a un nuovo rovescio finanziario del marito, Juliette si trasferì, nel 1819, al tempo dei suoi amori con Chateaubriand. Qui la “Ninon de Lanclos moderna, con in più la virtù”, come l’avevano battezzata certi contemporanei maligni, si trasformò nella Beatrice, nell’Ange Fatal di Chateabriand.
 

L’aveva visto la prima volta di sfuggita, nel 1801-2, nel suo salotto e nel boudoir di Madame de  Staël. Aveva risentito il suo nome, nel 1812, a Lione, durante l’esilio inflittole da Bonaparte per un’ennesima visita a Coppet. Dopo il viaggio in Italia, dove si era fatta amica del Canova e aveva rivisto a Napoli, ormai tentennanti nella loro fede napoleonica, i Murat, lo aveva ritrovato nel suo salotto parigino, riaperto, nel 1814, al rientro dei Borboni, in rue Basse-du-Rempart. Vi circolavano di nuovo i vecchi amici, i Montmorency, Madame de Staël, Canova, Constant e, in più, Metternich, e un corteggiatore di fresca data, il duca di Wellington, non ancora vittorioso a Waterloo. Chateaubriand, quarantaseienne, veniva a leggervi una sua novella inedita, Les Abencerages. Ma il loro amore non era ancora maturo.
Nel 1814-15 Juliette era occupatissima a rintuzzare l’improvvisa passione di Benjamin Constant, l’antico amico di Madame de Staël, di cui ben conosceva l’intima durezza. L’amore con François-René fu preceduto da un periodo di vaga amicizia. Dapprima Juliette ne ammirò l’ingegno fervido di scrittore, poi, fu presa, a poco a poco, dalla passionalità e dalla prepotenza di quella natura.
Per stargli sempre più vicina, si fece, perfino, amica della moglie, l’arida e intelligente viscontessa Céleste. Palpitò di simpatia ai suoi primi infortuni politici, quando, nel 1816, per aver pubblicato La Monarchie selon la Charte, Chateaubriand si vide ritirare il titolo e la pensione di ministro di Stato. L’anno dopo era in acque cattivissime, ridotto, perfino, a vendere la sua biblioteca. E fu allora, in quel memorabile pranzo del maggio 1817, che riuniva per una delle ultime volte gli amici attorno a Madame de Staël, ormai paralizzata, che, al rapido scoccare di uno sguardo, François-René si accorse di Juliette come donna. Di Juliette, che, probabilmente, già, in segreto, lo amava.
Il nuovo destino di Madame Récamier si compiva sull’orlo della tomba della sua grande amica. Un’altra figura, carica di indisciplinate passioni e di generose imprudenze politiche e sentimentali, che aveva più di un punto in comune con l’autrice di Corinne, veniva a sostituire al momento giusto l’amica moribonda, che per venti anni aveva dato a Juliette un poco della sua grandezza, le aveva preso un poco della sua dolcezza.
Madame de Staël scompariva nel luglio dello stesso anno.
L’anno dopo, nell’ottobre, al ritorno dalle acque di Aix-la-Chapelle, Madame Récamier divenne tutta di Chateabriand. 
 

Era stato per lei un anno e mezzo d’inferno: non voleva cedere, era tormentata da crisi nervose, confessava di aver perso completamente la testa. Gli amici, specie il severo Mentore brontolone, Montmorency, la rimproveravano e tentavano di scongiurare la tempesta. Ma la povera colomba trentottenne era stanca della sua eterna veste candida, anche se cercava disperatamente di salvare le apparenze della sua leggenda, di avvolgere tutto nel mistero.
Non sappiamo, infatti, dove e quando François-René e Juiette si amarono.
Forse, come ha supposto Levaillant, in una casa della Foresta di Chantilly, dove Madame Récamier fece in quegli anni molte soste.
“Non dimenticate Chantilly.”,
le scriveva l’amico.
E lei più tardi, al tempo di certe sue avventure londinesi, gli rimproverava di aver dimenticato Chantilly.
Chateaubriand, infatti, non le fu fedele a lungo, specie quando, nel 1820, tornò in auge politica, come ambasciatore e ministro di Stato. Juliette soffriva come una donna qualunque, non trovava più le sue antiche armi di vergine civetta. Scelse l’unica degna della sua natura schiva: nel tardo 1823, d’un tratto, scomparve dall’Abbaye-aux-Bois, e partì per l’Italia, trascinandosi dietro la figlia adottiva, il vecchio e fedele Ballanche, e il giovanissimo Jean Jacques Ampère, figlio di un amico di Lione, futuro inventore dell’elettricità dinamica: un nuovo spasimante da tormentare e deludere, alla maniera antica, pre-Chantilly.
Al suo ritorno a Parigi, nel maggio del 1825, i due amanti si ritrovarono muti e commossi: non una parola di rimprovero fu pronunciata. Deposti gli antichi ardori, iniziava, per Juliette, quel ruolo di consolatrice, che si accentuò dopo il 1830, quando, con la rivoluzione di luglio e il passaggio del trono dai Borboni a Luigi Filippo d’Orléans, il legittimista Chateaubriand si ritirò clamorosamente dalla vita politica, per dedicarsi tutto al completamento delle memorie, pubblicate postume. Storia della sua vita, le Mémoires d’Outre-Tombe divennero, a poco a poco, un altare eretto per la cara figura di Juliette, ormai nobilmente idealizzata. Non vi si parlava, beninteso, della danza dello scialle né dei bigliettini galanti della piccola posta di Coppet né di Chantilly. Juliette, che qualcuno tra il 1820 e il 1830 osava ancora chiamare la Circe dell’Abbaye-aux-Bois, alludendo al traffico di nomine e portafogli del suo nuovo salotto, era consacrata ormai come Madonna dell’Abbaye, come ange fatal della sua epoca.
Lei lo ripagava, organizzando un salotto dove tutto era previsto per gravitare attorno alla gloria di François-René che vi andava leggendo i capitoli delle memorie. In una nuova, severa pantomima, ben diversa da quella danzata della ventenne Juliette alla Chaussée d’Antin, l’esile vecchia dai capelli bianchi accompagnava gli ospiti ai posti rigorosamente fissati, in cerchi di sedie geometrici, graduati in modo da creare a François-René un pubblico sempre attento.
Così, lavorando a erigersi un reciproco monumento di gloria, i due tramontavano.
Juliette perdeva la vista, François-René la parola. 
 

Morirono a distanza di un anno, prima lui poi lei, tra il 1848 e il 1849, i due protagonisti della favola incredibile: quella del giglio di Francia, che aveva aspettato a sfiorire per trasformarsi in rosa: quella della colomba e dello sparviero, che finivano placati, come Filemone e Bauci. 


Daniela Zini
Copyright © 11 novembre 2008 ADZ


venerdì 27 maggio 2011

MAMMA JONES di Daniela Zini


Mamma Jones

La leggendaria figura di Mamma Jones, una delle più accanite agitatrici sindacali di tutta l’America.

Mary Harris JONES
[1° maggio 1837 – 30 novembre 1930]  


 
 “Dove vivo? 
Ovunque si lotti contro l’oppressione.”

Così rispondeva la coraggiosa donna a chi voleva farsela amica e frequentarla. A novanta anni teneva ancora comizi, spostandosi da uno Stato all’altro, viaggiando in treno, in calesse, in carri agricoli, che, talvolta, dovevano guadare i fiumi, quasi sempre con la polizia alle calcagna. Spesso era ospitata qui e là nelle baracche dei minatori e degli operai per i quali conduceva la sua strenua lotta.


“Si era verso il 1891 e io mi trovavo in Virginia. C’era uno sciopero nelle miniere di Dietz e i ragazzi mi avevano mandata a chiamare. Appena scesa dal treno mi si avvicinò un tale e mi chiese se ero Mamma Jones. – Sì, sono io, dissi. – – Il direttore mi ha detto che se provi a venire qui ti farà saltare le cervella. –”
Il direttore aveva ottime ragioni per minacciare di morte Mamma Jones, perché questa donna fu una nemica dei potenti. La sua fotografia spicca sulla copertina della autobiografia. Ci mostra il volto di una gentile vecchietta dal collo avvolto in una delicata sciarpina di pizzo. Un volto, questo, che, a suo tempo, si trovava in tutti gli uffici di polizia delle zone minerarie e industriali degli Stati Uniti, visto che questa angelica e anziana signora fu una delle più formidabili agitatrici sindacali di tutta l’America.
Visse a lungo, a novanta anni teneva ancora comizi. Tenne comizi per quaranta anni, in una epoca in cui far la sindacalista era cosa assai dura: toccava spostarsi da uno Stato all’altro, in treno, in calesse, a piedi, guadando i fiumi sempre con la polizia “alle calcagna”.
“Vivo negli Stati Uniti”,
scrive nel capitolo XVI,
“ma non potrei dir dove. Il mio indirizzo è dovunque si lotti contro l’oppressione. Un giorno sono a Washington, un altro in Pennsylvania o in Arizona, in Texas, Minnesota, Colorado. Il mio indirizzo è come le mie scarpe, viaggia con me.”
A quel tempo il sindacato dove esisteva, era semiclandestino e proibiti, spesso, erano gli scioperi, quei terribili scioperi americani della fine dell’Ottocento e dei primi decenni del secolo scorso, teatro di durissimi scontri con la polizia federale e privata, che uccideva senza scrupoli, in nome della proprietà. I minatori, i metalmeccanici, i tessili, si battevano per sfuggire a condizioni di vita inumane. Tutto questo è stato ampiamente documentato dagli scrittori più seri dell’epoca da John Dos Passos a John Steinbeck. E ce lo illustra, con estrema semplicità ed efficacia anche Mamma Jones, nella sua autobiografia:
“Prima del 1899 le miniere di carbone della Pennsylvania”,
scrive,
“non erano sindacalmente organizzate. Gli emigrati si riversavano nel paese e lavoravano per poco, c’era sempre un surplus di manodopera immigrata, fatta venire dall’Europa dalle società carbonifere, in modo da tenere i salari al livello di pura sussistenza; le ore di lavoro trascorse sottoterra erano lunghe, non di rado quattordici o tredici. La vita del minatore non era protetta da nessuna legge, le famiglie vivevano in baracche di proprietà della società, indegne persino dei maiali. I bambini morivano a centinaia. L’unione dei minatori decise di sindacalizzare la zona e di lottare.”
Più avanti scrive:
“Uno dei primi scioperi che io ricordi avvenne negli Anni Settanta. Questi primi anni videro gli esordi della vita industriale americana. Insieme al sorgere dell’industria, all’espansione delle ferrovie, dell’accumulazione del capitale, allo sviluppo delle banche, vennero le leggi antioperaie.”
Lotta durissima, dunque, che vide Mamma Jones all’opera per anni e anni insieme ai minatori e agli operai, con i quali viveva, spesso, ospite nelle loro baracche, prima e dopo le riunioni.
Del filo da torcere, ai potenti, Mamma Jones ne dette molto, insieme alle donne dei distretti minerari. E, mentre questo diario testimonia delle grandi lotte operaie d’America, testimonia, soprattutto, il fatto che le donne vi presero parte in prima persona e in gran numero.
Come?
È ancora lei che ce lo racconta:
“Ad Arnot, in Pennsylvania, lo sciopero si protraeva già da quattro o cinque mesi, gli uomini cominciavano a perdere la speranza. Mi telefonarono perché andassi subito. Partii all’alba: con cavallo e calesse percorremmo sedici miglia di dura strada di montagna. Domenica pomeriggio feci un comizio e cercai di scuotere quei poveri diavoli: - Dovete impegnarvi a fondo – dissi – e restare uniti ai vostri compagni e al sindacato, fino alla vittoria. – Gli uomini strascicavano i piedi, ma le donne presero l’iniziativa, coi bambini in braccio, e si impegnarono a impedire che qualcuno andasse al lavoro la mattina dopo. La società cercò di far entrare i crumiri in miniera. Dissi agli uomini di restare a casa con i bambini e di dare il cambio alle donne. Organizzai un esercito di casalinghe: in un giorno prestabilito dovevano portare scope e ramazze e l’esercito così costituito avrebbe dato una lezione ai crumiri, là in miniera. Decisi di non andarci personalmente perché sapevo che mi avrebbero arrestata mettendo in rotta il nostro esercito (e, infatti, in seguito, Mamma Jones fu arrestata numerose volte n.d.r.). Scelsi come capitano una irlandese con un aspetto dei più pittoreschi. Si era infilata una sottana rossa sopra la camicia da notte di cotone spesso, aveva una calza rossa e una bianca e attorno alla capigliatura ribelle si era annodata uno scialletto rosso, aveva la faccia infuocata e gli occhi furenti. A colpo d’occhio capii che era in grado di scatenare una rivolta. Le dissi: - Porta l’esercito fino alla miniera. Prendi la casseruola che hai con te e il martello e quando arrivano i crumiri coi muli, tu dai delle martellate e urla; fate tutte lo stesso e tenetevi pronte. Non fatevi intimorire da nessuno. –”
Non si fecero intimorire affatto.
Il racconto continua:
“Urlando a squarciagola, condusse le donne su per il fianco della montagna, e appena arrivarono i muli con i crumiri e il carbone, prese a battere sulla casseruola e a gridare, e tutto l’esercito di donne la imitò. Lo sceriffo le batté sulla spalla: – Cara signora, faccia attenzione ai muli, non li spaventi. – La donna, afferrata la sua vecchia pentola gliele suonò, gridando: – Va’ al diavolo tu e i muli. – Da quel giorno le donne tennero costantemente d’occhio la miniera.”
E lo sciopero fu vinto.
Lottarono molto, le donne, contro la violenza.
La loro carica esplosiva veniva dal fatto di doversi battere su due fronti: in fabbrica, o in miniera, e in casa sentendo ancora più pesantemente, forse, dei loro compagni, il peso della miseria che impedisce di dare da vivere alla famiglia.
Molte di loro furono uccise dalla polizia.
Molte urlarono la loro rabbia in canzoni da loro stesse composte, che diventarono la coscienza dei minatori.
Sara Ogan Gunning, vedova di un minatore, compose una canzone: 

Minatore svegliati, apri gli occhi e guarda
Cosa sta facendo a te e a me lo sporco sistema capitalistico
Ti succhia veramente il sangue, si prende la vita dei nostri figli
Porta via i padri dei bambini e i mariti delle mogli
Minatore dovunque tu sia, vuoi formare un sindacato?

Anche Mamma Jones era passata alla lotta quando aveva perduto tutta la famiglia, una famiglia che, in più umane condizioni di vita, non sarebbe andata distrutta. È così che lei, in poche righe, ci racconta la sua storia:
“Nacqui a Cork, in Irlanda, nel 1830. I miei erano povera gente, mio padre venne in America, manovale nelle squadre addette alle costruzioni delle ferrovie. Volevo fare l’insegnante, feci le scuole medie, poi, imparai a far la sarta.”
Si sposò con un operaio fonditore.
“Nel 1867”,
scrive ancora,
“scoppiò un’epidemia di febbre gialla, che fece vittime soprattutto tra i poveri e i lavoratori. Uno dopo l’altro i miei quattro bambini si ammalarono e morirono. Lavai i loro corpicini e li composi per la sepoltura, anche mio marito prese la febbre e morì. Ritornai a Chicago e ripresi il lavoro di sarta. Nell’ottobre 1871, il grande incendio di Chicago distrusse il mio stabile e tutto quel che avevo. Lì vicino, in un vecchio edificio, tenevano le loro riunioni i Cavalieri del Lavoro. Erano l’organizzazione operaia di allora. Passavo le mie sere alle loro riunioni. Presi parte più attivamente alle lotte operaie e decisi di partecipare agli sforzi dei lavoratori per migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro.”


Se vi è qualcuno che pensa che Mamma Jones sia stata particolarmente sfortunata, si sbaglia.
Basta aver studiato anche superficialmente la storia, la vera storia degli Stati Uniti[1], per sapere che questo tipo di sfortuna era comune a migliaia e migliaia di persone, per sapere come vivevano in città negli slums e fuori, nelle baraccopoli. Nel suo libro, Mamma Jones parla delle sofferenze dei bambini messi a lavorare soprattutto nelle filande.
“Di questi bambini”,
scrive,
“quelli che potevano andare a scuola generalmente erano quelli che avevano avuto un infortunio.”
Visto che, spesso, lasciavano le dita, le mani o i capelli nelle macchine.
Il capitolo X del libro è interamente dedicato alla memorabile marcia che, nel 1903, portò 20mila bambini, da lei accompagnati, da Kensigton (Pennsylvania) attraverso l’America fino a New York.
È tutto vero, quello che questa agitatrice sindacale ha scritto?


Come ho detto, basta una conoscenza anche superficiale della storia degli Stati Uniti, per sapere che, purtroppo, è tutto vero.
Sembra che Mamma Jones abbia detto una sola bugia: si è “aumentata” un poco l’età, una delle poche civetterie della sua vita. Per il resto la sua è stata una vita di lotta, al fianco dei lavoratori e, soprattutto, delle lavoratrici.
“ – Uscite a lottare! – dicevo alle donne. – Lottate con tutte le forze, fino alla fine! – ed era l’unico modo che avevo per consolarle.”
Un appello che non lasceremo cadere…
Grazie Mamma Jones!


Daniela Zini
Copyright © 22 maggio 2011 ADZ


Copyright © 29 maggio 2010 ADZDaniela Zini
Copyright © 29 maggio 2010 ADZ




[1] Wiliam A. William, Storia degli Stati Uniti.